Slobodanka Ciric è un’artista serba trapiantata a Napoli alla quale si devono numerose performance ispirate al vastissimo patrimonio mitopoietico della città. Nata a Belgrado nel 1961, in Italia arriva a seguito della desgregazione della Yugoslavia, diventando una appassionata portavoce del suo popolo. A lei è dedicato il testo critico che segue, a firma di Daniela Marra.

“Il mito è un testo che non ha mai finito di dire quello che ha da dire” ( I. Calvino)

Tra mito e rappresentazione visiva Slobodanka Ciric intraprende disinvoltamente un viaggio narrativo attraverso lo specchio del tempo altromitologico, un tempo che annulla la storicità, cristallizzandola nella dimensione senza tempo del mito. I versi e le fotografie si alternano come un unicum narrativo, spiegazione e completamento l’uno dell’altro si fondono in un atto narrativo d’amore, dando forma a visioni oniriche e rivisitando archetipi in chiave intima e contemporanea.


Il mito greco rinasce espressivamente in una nuova forma moderna e si veste dell’intimità e dei sincretismi culturali di cui è portatrice la scrittrice, che pur essendo soggetto narrante e narrativo, ossia Pandora, è anche oggetto e crocevia di simboli: osando potrebbe essere proprio lei il vaso di Pandora, da cui hanno origine non tutti i mali come vuole il mito misogino, ma tutti i segreti femminili, “le anime alate” di cui Rea/Pandora ne fu custode.  Eroina e martire divina, la Pandora nella rivelazione artistica della Ciric è la protagonista dell’epopea luminosa dell’età dell’oro e come un’eroina del nuovo secolo si muove con grazia e potenza tra carnalità e spiritualità, conducendo un gioco sensuale e seducente con la morte, delicato riflesso dell’ineluttabile. Eros e Thanatos sono le forze dominanti della narrazione, della favola allegorica che scorre come un fiume in piena tra versi e fotografie in un eterno rimando. Si ha la sensazione di essere travolti, di dover tornare continuamente indietro, dall’immagine al verso e dal verso all’immagine completativa che apre la porta ad una percezione dell’invisibile laddove non arriva la parola. La rigidità dell’iconografia classica si confronta con la fotografia di reinterpretazione, viene sciolta e superata grazie alla visione più intima e psicoanalitica della Ciric, che annulla la distanza temporale cogliendo oceani di senso nell’immediatezza dell’aria che si respira, un’aria che ha un quid di domestico e universale e si avverte con forza nella seconda parte dell’opera.

L’intermedialità fonde codici espressivi di diversa natura in una struttura inscindibile dal grande impatto emotivo. Il concetto che ha sempre appassionato le avanguardie poetiche ed artistiche viene ripreso in quest’opera che presenta una galleria di immagini/versi non “esposti”  ma a cui viene esposto il fruitore che le vive e non contempla.

Senza cadute nel sensazionalismo, che spesso sono dietro l’angolo quando si affronta un’opera che utilizza codici espressivi e performativi nuovi, l’opera della Ciric è delicata e lineare e l’uso del multilinguaggio risponde ad un’esigenza espressiva che è necessità interna di struttura. La chiusura con le nozze sacre rappresenta la risoluzione dei conflitti in un universo allegorico che fa del doppio il proprio leitmotiv; doppia è la narrazione attraverso parola ed immagine, doppia la figura di Pandora, carne e spirito,docile e terribile, doppia la forza demiurgica di Eros e Thanatos, doppio il ciliegio, e così via fino all’ultima immagine evocativa dove il timone, che etimologicamente rimanda alla separazione, viene tenuto ben saldo tra le mani della Ciric e diventa simbolo di unità e volontà, volontà di guidar-si verso l’ignoto infinito senza timore.

 

Daniela Marra