a cura di Luca Maimone
Il 20 dicembre il regista coreano Kim Ki Duk avrebbe compiuto sessant’anni, ma complicazioni dovute al Covid lo hanno reso un’altra vittima illustre del virus che dilaga ancora per il mondo. E’ morto in viaggio e in solitudine, elementi che hanno costituito la sua vita e la sua opera. E’ stato creatore di opere uniche e di grande forza artistica, negli anni ne ha realizzate diverse: “Crocodile”, “L’Isola”, “Indirizzo sconosciuto”, “Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera”, “Ferro 3”, per citarne solo alcune; di molte di esse è stato, oltre che regista, anche montatore, direttore della fotografia e scenografo.Nato in una famiglia povera in Sud Corea, lasciata la scuola da ragazzino, ha lavorato in fabbrica, si è arruolato in marina per diversi anni. In seguito ha scelto l’Europa e propriamente Parigi come casa, dove ha coltivato il suo primo amore, la pittura, mantenendosi vendendo i suoi quadri lungo la Senna o presso la riviera di Montpellier. Poi arriva la folgorazione del cinema e incomincia, da autodidatta, a scrivere sceneggiature e filmare, con l’onestà tutta naif del neofita.
La sua sensibilità, profondità e visionarietà lo hanno reso uno degli artisti della settima arte più ispirati e apprezzati al mondo, molto più amato in Europa che nel suo paese natale: i suoi film possono essere un’esperienza visiva ed emotiva davvero unica e il suo cinema, intriso di lirismo e disgusto, non è intrattenimento, bensì introspezione e provocazione. Grande indagatore del cuore umano, ha saputo, con perizia e spericolatezza, scavare negli anfratti più torbidi e angusti dell’esistenza, inscenando racconti di uomini e donne, guerre e silenzi, perversioni e candore. Una caratteristica che ricorre spesso nei film del regista asiatico, sovente anche criticato per questo, è il ricorso al tema della violenza, che ha sperimentato sulla sua pelle; così ricordava infatti il regista: “Mio padre è un veterano della Guerra di Corea. Subì torture psicologiche e fisiche da parte della Corea del Nord. Riuscì a tornare a casa, con quattro pallottole in corpo, solo dopo uno scambio di prigionieri. Ma non fu più la stessa persona: era pervaso da un senso di sconfitta e da una rabbia inaudita che scaricava quotidianamente su di me. Ero terrorizzato da mio padre, ma crescendo compresi che anche lui era soltanto un’altra vittima della società.”.
La violenza, evocata nei suoi film, rappresenta la crudeltà delle condizioni in cui tanti individui conducono le loro vite, cattive, poiché vissute in cattività, crudeli poiché cruda è la loro esposizione alle vessazioni inflitte dai poteri. I poteri che manifestano la loro brutalità non sono esclusivamente quelli politici, ma come affermò lo stesso Kim: “volevo dimostrare che dietro un regime totalitario non c’è necessariamente un governo, ma anche un singolo individuo. I dittatori si nascondono nelle famiglie, possono essere fidanzati o amici, o insegnanti a scuola. Ho provato a mostrare tutti i modi codardi in cui decidiamo di vivere”. E dalla violenza, nei suoi film, spesso, emerge, come brezza inaspettata, la poesia: manifestata in sguardi, gesti e azioni, semplici e afone, eppure così dense ed evocative. Non c’è misura nel cinema del regista asiatico, estremo è il dolore ed estrema è la grazia. Redenzione, colpa, espiazione i temi legati al suo credo cristiano, impermanenza del tempo, essenzialità, sottrazione e estetica del silenzio quelli legati all’influenza buddista della sua cultura di origine. Uno “shock punk buddista” ha definito il suo cinema il critico inglese Peter Bradshaw, ma quella di Kim è stata anche un’arte carica di sensibilità e bellezza ipnotica.
Il suo violento gesto poetico ha inferto colpi micidiali agli spettatori e allo stesso tempo ha donato preziosi brividi lirici. Se è vero che un artista non muore mai, poiché eterna è la sua opera, lo sguardo irripetibile di Kim sul mondo, mediato dalla sua arte, è presente e vivo e respira ancora con noi.