Ecco l’intervista che il re dei dolci, Michele Ferrero, morto qualche giorno fa, rilasciò nel 1963 alla Domenica del Corriere. Un documento interessante per capire uno degli industriali più significativi del made in Italy….. Il colloqui era nella serie dei “potenti che nessuno vede mai”. Il titolo: Mi scusi, sa, ma che ci campa a fa’?.
Trentasette anni, fisico da play-boy, miliardario. Il “re dei dolci” pensa soltanto al suo lavoro. Hobbies? Nessuno. Vacanze, zero. E allora perché? Tutto per stare al timone della sua industria dolciaria che dodici anni fa praticamente non esisteva, e che oggi è fra le più potenti d’Europa.
L’autore dell’intervista Alfredo Pigna. Ecco il testa
Per questa rubrica “I potenti che nessuno vede mai” ho ricevuto molte lettere. Intendiamoci bene: il merito è del giornale, non mio, né della rubrica. Chiunque scrive sulla “Domenica del Corriere” riceve lettere. La “Domenica del Corriere” è, credo, il giornale che riceve più lettere al giorno in Italia, e non soltanto in Italia.
Riceve una quantità di lettere il direttore per la sua rubrica di posta, ne arriva una valanga in segreteria per le “cartoline del pubblico” e per le altre rubriche e un numero tutt’altro che trascurabile è indirizzato a Indro Montanelli per la sua “Stanza” (lettere di male parole o addirittura apologetiche, in egual misura; ma Montanelli preferisce le prime perché offrono magnifici spunti al suo estro di polemista); ne ricevono, insomma, un po’ tutti quelli che, scrivendo sulla “Domenica”, trattano argomenti di pubblico interesse.
Le lettere che ricevo io, per questa rubrica, sono scritte, per lo più, da impiegati di “prima categoria” (o di “seconda categoria con mansioni dirigenziali”), i quali vogliono fare carriera. Questi aspiranti-dirigenti mi accusano, a dir poco, di leggerezza e di superficialità; essi si chiedono, e mi chiedono, come mai io abbia potuto, finora, ignorare un “potente” del calibro del loro principale, il grand’uff. del cav. del lav. Giovanni Vattelapesca, della “Vattelapesca & C.”, benemerito del risorgimento sociale ed economico del centro-sud-nord –isolano, e mi offrono, in conclusione, la possibilità di salvarmi in extremis da una brutta figura fissandomi un appuntamento per gettare le basi di un incontro-intervista col grand’uff. Vattelapesca.
Siccome la mia ignoranza è grande, tutte le volte che ricevo lettere di questo genere mi informo sul grand’uff. Vattelapesca di turno e non di rado deve concludere che la solerzia e l’istinto caratteristico dell’aspirante-dirigente, segnalatore di turno, hanno esagerato importanza, statura morale, e, soprattutto, bilanci economici del loro principale.
Una volta sola non feci atto di modestia nel ricevere una segnalazione, non andai cioè ad informarmi subito sull’ “entità” del personaggio indicatomi, ed adesso sono qui a farne pubblica ammenda. Fu quando Gianfranco Rizzini (che non è un aspirante carrierista, ma un mio disinteressato amico e compagno di lavoro) cortesemente mi suggerì di intervistare, nel quadro della rubrica sui “potenti”, Michele Ferrero.
“Chi?” domandai guardandolo con sospetto. “Ferrero – rispose imperterrito – Michele Ferrero”.
“E chi è” domandai già pensando a come avrei dovuto cavarmela per dirgli che dopo Carlo Faina, presidente della Montecatini, Enrico Mattei, presidente dell’Eni, Vincenzo Cazzaniga, presidente della Esso, dopo l’armatore Fassio, dopo Ferdinando Innocenti e così via discorrendo, non potevo certo mettere in lista un Michele Ferrero qualsiasi (anche se era amico suo).
“Tu lo conosci?” aggiunsi con cattiveria.
“No – disse Rizzini – personalmente no. Ma so chi è e che cosa fa. I dolci, prodotti al cioccolato e varie altre cosette. E’ uno importante”.
“Senti – dissi pazientemente – questa è la rubrica dei ‘numeri uno’ e per numeri uno intendo quegli italiani che anche all’estero vengono definiti i protagonisti del ‘miracolo economico’. Adesso per spiegarti, sto intervistando Gianni Agnelli. Nel campo delle automobili la Fiat, di cui Agnelli è padrone e vicepresidente, è ‘numero uno’; ed è ‘numero uno’ anche la RIV della quale Agnelli è presidente e padrone. Ecco perché intervisto Agnelli. Nel campo dei dolci e del cioccolato, non vorrei sbagliarmi – aggiunsi con intenzioni ironiche – credo ci sia gente come Alemagna, Motta, Perugina, Pavesi eccetera eccetera. Perciò, semmai …”.
“Ci sono – mi interruppe Rizzini – ma il numero uno, in questo campo, è Ferrero”.
Lascia cadere la discussione ma la pulce nell’orecchio che m’aveva messo Rizzini mi indusse, nei giorni successivi a controllare. Risultato: Michele Ferrero vale la barre cola di quaranta miliardi l’anno di fatturato (tanti quanti ne dichiara Ferdinando Innocenti, l’uomo della Lambretta e della ‘A-40’), la sua società produce 600.000 quintali l’anno di prodotti i quali vengono distribuiti a 250 mila rivenditori dai suoi quasi duemila automezzi. Insomma Ferrero Michele, nato a Dogliani il 26 aprile 1925, è il re dei dolci e delle caramelle e degli alimenti al cioccolato, in Italia e, per quel che ne so, ha buone probabilità di diventare numero uno anche in Europa. Ne informai il direttore, e avuto il suo consenso, mi misi in contatto col personaggio in questione.
Conobbi Michele Ferrero nel suo ufficio di Torino.
“Pigna, piacere”.
“Molto lieto, Ferrero”.
Mi guardai intorno. Conosco molti impiegati di prima categoria, senza mansioni molto importanti che hanno uffici parecchio più lussuosi di quello in cui mi trovavo.
“Prego si accomodi”.
Mi avevano detto che Ferrero è un uomo schivo e timido. Verissimo, e me ne sarei reso conto meglio in seguito. Il fatto è tanto più curioso in quanto Ferrero è un giovanotto col fisico da play-boy e con le tasche piene di miliardi (cosa di cui raramente i play-boys dispongono).
“Eccoci qua”. Ferrero si sistemò sulla sua poltrona, dopo che io ero affondato nella mia, e mi guardò con un sorriso franco ma piuttosto impacciato. Non so perché pensai a quelle visite di convenienza che mia madre mi costringeva a fare, da ragazzo, in qualche pomeriggio delle feste di pasqua o di Natale.
“Ha visitato gli stabilimenti di Alba?” disse poi Ferrero.
Sissignore, li avevo visitati e, dico la verità, ne ero rimasto colpito. Pensate, dodici anni fa, dove adesso lavorano migliaia di persone, dove a ritmo continuo arrivano enormi camion sbarcando nei silos centinaia, migliaia di tonnellate di zucchero, di cacao, di nocciole, e di una quantità di altre cose che nello spazio di poche ore escono da un’altra parte confezionate e imballate, per essere caricate su altri camion che andranno a consegnarle in giro per tutta l’Italia, c’era soltanto una cascina, qualche stalla e alcuni covoni di fieno.
“E che cosa ne pensa?” mi domandò con sincera curiosità Ferrero.
Glielo dissi e aggiunsi che la cosa che io giudicavo più sorprendente era la rapidità con cui la “Ferrero” si era ingrandita. “Miracolo economico, d’accordo, ma voi mi sembra che abbiate esagerato!”.
Ferrero sorrise soddisfatto. “Non lo so – disse poi – non lo sappiamo nemmeno noi. Il merito, però, è bene che glielo dica subito è tutto di mio padre e di mio zio. Hanno lavorato sodo. Non credo si possa lavorare più di quanto abbiano fatto loro, e, sotto molti aspetti, sono stati dei precursori. Insomma hanno capito cose importanti molto presto. Il sistema di distribuzione, per esempio. Fu un’intuizione magnifica. Pensi, noi trattiamo direttamente con il singolo cliente. Noi gli portiamo la merce e almeno una volta alla settimana andiamo a trovarlo. Per rifornirlo di altra merce, naturalmente, ma anche per chiedergli notizie, per sapere che cosa va e che cosa non va. Una cosa facile a dirsi ma un po’ difficile da realizzare. Veda, i nostri clienti, i negozianti che vendono i nostri prodotti, sono 250 mila. E con ciascuno di questi 250 mila noi ci comportiamo allo stesso modo. Sono nostri amici con i quali manteniamo contatti continui. Ci danno consigli e noi li seguiamo …”.
“Insomma è come se fossero Ferrero anche loro …”.
“Non volevo dir questo – disse Ferrero, e mentre parla di queste cose si anima, diventa un altro individuo, la sua timidezza scompare. – A noi interessa soprattutto seguire il prodotto in tutte le sue fasi: quando è frazionato nel greggio, quando prende corpo, quando esce dagli stabilimenti, quando entra nelle case dove verrà emesso il giudizio. Un giudizio che può fare la nostra fortuna o la nostra rovina. Ecco perché noi vogliamo subito conoscerlo, attraverso i rivenditori. Il loro parere, i loro consigli sono preziosissimi, per noi”.
Michele Ferrero m’ha detto prima che il merito di tutta questa organizzazione va a suo padre e a suo zio. Ma suo padre e suo zio sono morti da anni. E da anni Michele Ferrero è solo, al timone di questa grossa barca che continua ad aumentare di stazza. Vediamo un po’: uno stabilimento ad Alba, uno a Pozzuoli Martesana, uno a Bari, uno a Lauro di Nola, una rete di vendite che arriva anche in Malesia (ho visto io nel padiglione imballaggio le casse pronte a partire), settanta filiali, centri meccanografici, attività sociali, organogrammi, 5.600 dipendenti.
Controllo questi dati e ne chiedo conferma a Michele Ferrero. Lui fa segno di sì con la testa. Torna ad essere timido.
Gli chiedo: “La storia della Ferrero è quasi incredibile. Nell’immediato dopoguerra suo padre, Pietro Ferrero era soltanto un pasticciere di Alba con qualche operaio e la fama poco più che cittadina, di essere il fabbricante del ‘pastone’. Poi improvvisamente il ‘boom’. Com’è successo?”.
“Il ‘pastone’! – Ferrero mi offre una sigaretta e sorride soddisfatto. – Ecco, il ‘pastone’. Sa cos’è?”.
“Credo di sì – rispondo – una specie di gianduiotto allungato. Cacao e nocciola, suppongo. So che lo chiamavano, e lo chiamano, il cioccolato dei poveri”.
“Io direi il dolce degli umili – mi corregge Ferrero – E mi creda, non faccio della retorica. Lei ricorderà, prima, durante e dopo la guerra che cosa volesse dire, per una quantità infinita di gente, mangiare il dolce. Milioni di persone avevano la possibilità di assaggiarne soltanto nelle grandi feste. A quanti bambini le mamme dicevano: se fai il buono domenica ti compro i cioccolatini, le caramelle. E noi sappiamo che negli altri Paesi, invece, i dolci sono alla portata di tutti, perché sono un cibo nutriente, perché sono buoni da mangiare, perché è giusto che tutti possano avere la possibilità di acquistarne. Bene: mio padre inventò il ‘pastone’, una specie di gianduiotto, come dice lei, che era molto buono ma che costava poco. Mio padre ma e anche mio zio Giovanni, che era suo socio, pensavano che i migliori clienti nostri, clienti di un dolce, sarebbero diventati quelle migliaia di operai, di muratori, di carpentieri, di contadini che all’ora della colazione erano soliti acquistare qualche pomodoro e un po’ di formaggio da mettere in mezzo alla pagnotta. E se – pensarono mio padre e mio zio – noi gli diamo la possibilità di far merenda con un dolce che costi eguale, o anche meno di quel che acquistavano prima? Ebbero ragione. Fu un successo travolgente del quale neppure oggi riusciamo a renderci pienamente ragione. Su quel ‘pastone’ è nata la Ferrero”.
Il successo
“Ma quale fu il primo vero sintomo del successo?”.
“C’è un episodio – ricorda Michele Ferrero. – Glielo racconto .ll signor Gandola vendette a Milano, ad una panetteria qualche chilo di ‘pastone’. In un pomeriggio il ‘pastone’ fu venduto. Gandola telegrafò ‘mandatemene subito un quintale’. Un quintale? E come si poteva? E se poi non si vendeva? Non so copme mio padre e mio zio riuscirono ad accontentare Gandola. Il ‘pastone’ fu venduto tutto in poche ore. Fu così che l’organizzazione della pasticceria Ferrero, la quale si basava soltanto su due personaggi: mio padre che fabbricava il ‘pastone’ e mio zio Giovanni che andava in giro con un vecchio furgone a venderlo, si ampliò …”.
“… in maniera ciclopica, direi: quasi duemila automezzi, al posto del vecchio furgone, e 600 mila quintali l’anno di produzione, al posto di quell’unico quintale che vi aveva spaventato”.
Michele ferrero si alzò e guardò l’orologio. L’ora di colazione era passata da un pezzo.
“Le va di fare un salto dalle parti di Stupinigi per mangiare qualcosa?”.
A Stupinigi era prenotato un posto d’angolo vicino ad un laghetto. Bel posto: tranquillo e fresco.
“E sua moglie?”
Ferrero è sposato da pochi mesi a Maria Franca Fissolo. Questo genere di domande sono le più difficili da fare in una intervista. La curiosità ha troppo il sapore del pettegolezzo; anche se non è così, anche se è giusto chiedere e sapere. Perché una moglie è cosa importante nella vita di un individuo e non è perciò possibile abbozzare un ritratto attendibile di un personaggio senza entrare nella sua vita privata.
Assunsi perciò un tono mondano e borbottai: “Maria franca Fissolo. Fissolo (pausa) Fissolo …”.
Ferreri mi guardò divertito. “Non indaghi nell’albero genealogico di mia moglie – disse poi. – Era una nostra impiegata, mia moglie, brava interprete e traduttrice. Preziosissima – aggiunse con un tono di voce nella quale neppure cercò di nascondere una venatura d’orgoglio. – Sarebbe venuta con noi, se non avesse avuto, in precedenza, un altro impegno”.
Un autorevole chef venne a prendere le ordinazioni (anzi decise lui perché vide me, che in fatto di gastronomia sono zero, incertissimo e Michele Ferrero assolutamente indifferente dinanzi al menu).
Chiesi: “Non ama la buona cucina?”
“Non mi interessa molto”, rispose Ferrero.
“Sport? – domandai ancora – le piacciono gli sport? Sci, nuoto, pesca subacquea, tennis? Quale preferisce?”
“Nessuno in particolare – disse Ferrero quasi scusandosi – non ho molto tempo per gli sport”.
“Le piace ballare? Le auto da corsa? Ecco: le piace guidare?”.
Michele Ferrero scosse il capo.
“Mi spiace. – disse – Temo che la mia vita privata non le offrirà molti spunti per il suo articolo. No, guidare, non che mi annoi, ma non mi interessa molto. Mi distraggo. Guidano sempre i miei collaboratori. Io utilizzo quel tempo pensando”.
“Ho capito – dissi – lei preferisce qualche passeggiata distensiva in riviera, magari a farsi il week-end nei paraggi di un casinò. Una puntatina, e via!”
“No, no, affatto – Ferrero sembrava scandalizzato. – Non ho mai messo piede in un casinò. Sì, forse. Un paio di volte quand’ero più giovane. Ma non ho mai giocato”.
“Ma in vacanza ci andrà! – dissi guardandolo incuriosito. – Tutti vanno in vacanza. Costa Azzurra? Cannes? Cap d’Antibes? Canarie? Rapallo? Calabria? Miami Beach?”.
“No, Andorra”.
“Andorra? – domandai – Andorra, quel paesino-nazione sui Pirenei? E che c’è ad Andorra?”
“Pace quanta ne vuole e poi non è lontana da Lourdes – rispose Ferrero. – Deve sapere che ogni anno la nostra società organizza per i suoi dipendenti un pellegrinaggio a Lourdes. Così quando la ‘carovana’ arriva io mi trovo vicino e posso raggiungerla facilmente”,
Strane vacanze
Lo guardai un po’ costernato. “Così anche quando è in vacanza lei se ne sta con la ‘Ferrero cioccolato’. Insomma – insistetti – lei ha trentasette anni, un sacco di soldi, la possibilità, insomma, di ripagare il lavoro che fa in maniera a dir poco soddisfacente e invece? Sa come dicono a Roma di un personaggio come lei? Ma che ci campa a fare?”
La battuta era piuttosto impertinente ma avevo avuto modo di rendermi conto di trovarmi di fronte una persona di spirito. Ferrero infatti rise di gusto e allargò le braccia.
“Lei potrà giudicarmi squallido personaggio e a volte io penso, con onestà, a tutto questo. Ma il fatto è che soltanto il lavoro ha la capacità di assorbirmi totalmente. Ho provato, a volte, a fare vacanza, come dice lei. Sono andato anche a sciare (che capitomboli ho fatto!) ma il pensiero di quel che succedeva laggiù, di quello che avrei potuto e dovuto fare, mi rovinava tutto. E non era più un divertimento”.
Ferrero si interruppe e la sua faccia divenne seria, preoccupata.
“Lei non può immaginare – disse dopo una lunga pausa – quanto grande sia il peso della responsabilità che mi sento sulle spalle. Mio padre e mio zio erano due colossi. Adesso io sono solo. Loro hanno creato: se non sto attento, io posso distruggere ciò che loro hanno fatto. Il mondo in cui noi viviamo è difficile, è pieno di insidie. Sbagliare è facile. E, mi creda, può bastare un solo sbaglio a rovinare tutto”.
Riportai il discorso sul lavoro. Ferrero mi aveva parlato di “mondo difficile”. Forse alludeva a qualcosa di preciso.
“I suoi concorrenti – dissi – la accusano di produrre cioccolato autarchico. In altre parole lei non userebbe – questa l’accusa – per i suoi prodotti cacao puro, ma surrogato. Credo abbiano perfino insistito perché sulle sue etichette lei non metta la parola cioccolato”.
“E’ una questione complessa – disse Ferrero – e ho piacere che lei ne abbia accennato. Come avrà notato visitando gli stabilimenti di Alba, i nostri prodotti sono destinati ad un grandissimo pubblico. Vendiamo una quantità di prodotti a dieci lire il pezzo, per esempio. E’ il concetto iniziale che è rimasto tale e quale. Ciò che si ripromettevano mio padre e mio zio era di far sì che tutti, in Italia, potessero essere in grado di acquistare dei dolci. L’accusa a proposito del cacao è falsa e dozzinale. A parte il fatto che, nella grande maggioranza, i nostri prodotti sono di cioccolato puro. Noi usiamo comunque cacao. E qui devo darle una spiegazione un po’ tecnica. Il cacao allo stato puro contiene all’incirca il 40 per cento di grassi. Il burro di cacao è un grasso. La legge prescrive anche che il cioccolato debba contenere burro di cacao nella percentuale non inferiore al 16 per cento. Noi acquistiamo fave di cacao. Tostiamo, sbucciamo ed estraiamo il burro di cacao. Per alcuni nostri prodotti (i surrogati) usiamo cacao al 10n per cento di burro ed aggiungiamo altri grassi vegetali. Tutto qui. Il prodotto è ottimo e soprattutto fa bene. Molti dicono che è addirittura più buono del cioccolato puro. Questione di gusti. Ciò che conta ad ogni modo, è servire bene il pubblico. Dargli qualcosa di buono che costi anche poco. I controlli chimici hanno rivelato che i nostri prodotti sono nutrienti e fanno bene alla salute. Il successo che riscuotono presso il pubblico ci dice che essi sono graditi. Non crede che sia giusto continuare su questa strada?”.
L’aspirazione
Nello studio di Ferrero avevo notato un certo numero di scatole con etichette in lingua inglese: prodotti americani “confratelli” dei prodotti Ferrero. Ne accennai.
“Faccio analizzare quei prodotti dai nostri chimici – mi spiegò Ferrero – come del resto faccio con quelli di tutte le ditte concorrenti anche straniere, per rendermi conto di tutto. In America, ad esempio, e posso provarglielo, grandissime ditte usano nei loro prodotti, denominati ‘cioccolato’, una percentuale di burro di cacao inferiore a quella che adoperiamo noi. Ad ogni modo, mi creda, è una battaglia continua”.
Un’ultima domanda.
“Lei non ha hobbies, il suo divertimento è il lavoro, la sua vita è la ‘Ferrero’. D’accordo. Posso perciò immaginare quali siano le sue aspirazioni. Ma, a parte quelle, sia gentile, mi dica che cosa lei desidera veramente per lei, come uomo, come Michele Ferrero. Qual è il suo sogno?”
Michele Ferrero mi guardò socchiudendo gli occhi, senza sorridere. Prese in mano un bicchiere e si mise a giocherellare con quello. Poi mi chiese se avessi voglia di fumare e chiamò lo chef per ordinargli il caffè. Finalmente di decise:
“Non ride se glielo dico? – disse, ed era più timido che mai, ed io, francamente, ero curiosissimo. – Bene – aggiunse poi. – Che si accorgano che vivo di lavoro e che mi facciano cavaliere del lavoro”.
Proprio così disse Michele Ferrero, trentasette anni, fisico da play-boy e miliardario: “che mi facciano cavaliere del lavoro”.
Domenica del Corriere, anno 64 n. 36 del 9 settembre 1962, pagina 36-38