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Com’è stato possibile che il fenomeno mafioso sia divenuto ormai parte indissolubile della realtà del nostro paese? Perché persiste da oltre due secoli. Perché le organizzazioni criminali riescono tuttora oggi a ottenere potere o influire sul potere? E ancora: come è mutato il fenomeno mafioso per persistere per circa duecento anni? Ecco la domande a cui prova a rispondere il nuovo libro di Isaia Sales, “Storia dell’Italia mafiosa” (Rubbettino Editore), ampia raffigurazione dei vari aspetti che concorrono alla vicenda mafiosa italiana: dalla nascita nel Mezzogiorno borbonico, allo sviluppo nell’Italia post unitaria, fino ai giorni nostri.

La storia della mafia vista nei rapporti che essa ha creato, nel tempo, con le classi dirigenti e coloro che detengono il potere. L’impunità che ha caratterizzato la storia delle mafie grazie agli intrecci con politica e magistratura (in cento anni di storia criminale sono stati solo dieci i mafiosi che hanno avuto l’ergastolo su migliaia di omicidi).

Ma il libro si distingue per la sistematica distruzione della tesi “culturalista” secondo la quale che l’affermazione delle mafie al Sud è dovuta al “familismo amorale”.

Con l’intervista che segue, il Sudonline ha provato a porre domande al libro piuttosto che al suo autore. Anzi, per dire meglio, Isaia Sales risponde alle nostre domande attraverso le parole e i concetti proposti nel suo libro, che è indirizzato non solo agli addetti ai lavori, ma a tutti coloro che sono interessati alla complessa realtà del Mezzogiorno.

Cominciamo dalla classificazione del fenomeno mafia. Nel volume si propongono cinque criteri per distinguerla dalla criminalità comune. Non è così?

Sì è corretto. Le caratteristiche dei fenomeni mafiosi possono essere ridotte a cinque: sociale, istituzionale, economico, ideologico, ordinamentale

Vediamole una per una. Cominciamo dalla prima caratteristica, quella sociale

Una criminalità di tipo mafioso ha attorno a sé il “riconoscimento” di un ambiente sociale che sente il comportamento mafioso non estraneo e non esterno ai suoi codici interpretativi della realtà.

E come se mafiosi e non mafiosi possedessero la stessa “grammatica” conoscitiva e comportamentale?

Esatto. Non c’è mafioso se attorno a lui non c’è una comunità di sostegno che riconosce il suo linguaggio, i suoi comportamenti, i suoi gesti, i sui atti, e non li legge solo come delinquenziali.

Seconda caratteristica: istituzionale

Una criminalità di tipo mafioso è tale se coloro che sono preposti alla repressione a l governo della cosa pubblica sono con essa in rapporto.

Cioè le relazioni con i mafiosi da parte di coloro che detengono il potere politico e istituzionale? Perché si stabiliscono?

Ciò non è dovuto alla paura, o solo ad essa, ma a qualcosa di più profondo: alla convinzione che anche la violenza, se disciplinata e controllata, può concorrere alla regolazione della società e al governo territoriale di essa.

Passiamo alla terza caratteristica, quella economica.

La mafia è tale se reinveste i capitali accumulati con l’uso della violenza nell’economia legale, senza lasciare mai definitivamente gli affari illegali anche quando ha messo solide radici nell’economia legale, e senza limitarsi solo ad attività predatorie. Questo muoversi contemporaneamente tra economia legale e illegale, questo continuo andirivieni, ne è una caratteristica.

Poi viene la quarta, che è di natura ideologica…

Una criminalità mafiosa è una criminalità ideologica. I mafiosi hanno un modo di pensare che corrisponde a una vera e propria costruzione ideologica, nel senso di trasformare propri interessi in valori.

Infine la quinta caratteristica: ordinamentale. Mafia e camorra realizzano un proprio ordine come lo Stato e le istituzioni statualmente lecite, giusto?

Gli addetti alla repressione ne riconoscono la capacità di “ordine” nel mondo anarchico delinquenziale con cui possono concordare eventuali accordi per reprimere “comunemente” i più indisciplinati.

Nel volume numerose pagine sono dedicate a due pregiudizi inossidabili che riguardano il Mezzogiorno e le mafie. Uno è l’idea che il Sud sia intimamente omertoso, dimenticando che propri nel Sud si assiste al sacrificio di centinaia di uomini e di donne che si sono apertamente opposti al crimine. E poi c’è il “familismo amorale”. Uno dei pregiudizi e stereotipi che resistono ad ogni smentita, più tenaci di ogni fatto che ne accerti l’inverosimiglianza…

Parliamone…

Il cosiddetto familismo amorale del sociologo statunitense Edward C. Banfiels…

Perché è radicata in un pregiudizio?

Questa teoria, al di là delle intenzioni del suo “scopritore”, viene usata ancora oggi anche nell’analisi dei fenomeni mafiosi, stabilendo un nesso quasi inestricabile tra familismo, arretratezza e criminalità… Indubbiamente Banfield ha coniato una delle formule sintetiche ed evocative sul Sud tra le più note in assoluto, perché è riuscita a… restare nel dibattito politico e giornalistico praticamente da più di 50 anni…

Ma come nasce l’idea? Dove?

Banfield si recò in Basilicata e in particolare a Chiaromonte… Poi pubblicò i risultati della sua ricerca in un libro uscito negli Usa nel 1958 dal titolo The moral basic of a backward society, tradotto in italiano la prima volta nel 1961 con il titolo Una Comunità del Sud d’Italia.

La prima edizione in italiano dell’opera di Banfield non suscitò una grande eco, non lasciò nessun segno.

La seconda edizione, che è del 1976, esce invece alla fine dell’intervento straordinario nel Sud e dopo i grandi delitti di mafia, sembrò dare una sponda a spiegazioni più semplici e banali ai problemi meridionali.

Banfield propose una spiegazione “culturale” della arretratezza meridionale. Perché “culturale”?

A suo avviso la mancanza di reazione alla miseria è dovuta alla presenza di un particolare ”ethos”, cioè al cosiddetto “familismo amorale”, che facendo concentrare gli interessi, gli affetti, le attenzioni e le preoccupazioni solo all’interno del proprio nucleo di sangue, bloccherebbe qualsiasi azione collettiva per migliorare la situazione. I familisti amorali sono senza morale nei confronti delle persone estranee al nucleo familiare, mentre i principi del bene e del male li applicano solo nei rapporti all’interno della famiglia…

Questa etica era considerata un ostacolo al progresso politico ed economico?

Sì, poiché rendeva gli individui impossibilati a cooperare per il ben e comune, incapaci di associarsi per creare qualcosa di utile per la società. Il familista è colui che perseguendo esclusivamente gli interessi della propria famiglia dimostra di avere uno scarso senso civico, di essere avverso allo spirito di comunità e disposto semmai a cooperare con glia ltri solo se ne ricaverà vantaggio materiale e immediato per sé e per la sia famiglia… Familismo morale è dunque l’opposto di civismo.

Non è ancora chiaro perché nel libro si parla di pregiudizio e di stereotipo in riferimento al familismo amorale…

Rileggendo oggi questa interpretazione sulle cause della miseria contadina del Sud di quegli anni, appare ancora più incredibile che essa abbia avuto tanto seguito e sia ancora oggi usata come causa del divario don il Centro-Nord… una teoria al limite del razzismo, sicuramente ispirata da una ideologia politica conservatrice… molto netta e chiara, a cui però non facevano riscontro prove e dati ineccepibili.

In che senso?

Su 3.400 abitanti del paese ne furono intervistati sollo una settantina e tutti contadini poveri… Le domande del questionario erano formulate in maniera tale da predisporre le risposte secondo i desideri dell’intervistatore… Il familismo amorale, insomma, è una di quelle teorie per le quali i ricercatori hanno già in tasca le ipotesi fondamentali…

Il problema centrale della tesi del Banfield è, dunque, la generalizzazione di uno studio di piccola scala, in un’area marginale.

Come si possono estendere i risultati di una ricerca fatta su di una comunità di poche migliaia di abitanti a tutto il sud? Che metodo scientifico è mai questo? Com’è possibile che la famiglia nucleare sia stata un handicap pe ril Sud e un fattore di successo per il Centro Nord?

Nel libro si sostiene inoltre che Banfield ha totalmente ignorato l’importanza del comparaggio e del vicinato…

Infatti i familisti amorali ci tenevano moltissimo al comparaggio (compari di anello al matrimonio, compari di battesimo e di cresima per i figli) che era una forma di sostegno nel bisogno e comunque un allargamento della famiglia di sangue, una parentela supplementare, perché i compari venivano considerati “genitori spirituali”… stessa cosa il vicinato, anch’esso importante proprio nei momenti di difficoltà… il comparaggio e il vicinato smentiscono il fatto che i contadini di Chiaromonte escludessero qualsiasi rapporto “morale” al di là della famiglia nucleare di sangue…

Perché un individualismo, spinto com’è quello dei familisti amorali, produce inciviltà e miseria? Perché seguire il proprio egoismo in una parte dà origine a povertà e in un’altra ricchezza? Sono queste le domande cruciali che mettono in mora le teorie di Banfield?

Indagini anche recenti hanno dimostrato come il ruolo della famiglia intesa come solidarietà all’interno del gruppo familiare sia più forte in molte nazioni europee che nel Mezzogiorno. Ad esempio in Irlanda e degli Usa più che in Italia. Il familismo amorale, inteso come il prevalere della famiglia nucleare, non è un habitus peculiare dei meridionali….

Nel meridione il nucleo familiare è la sola istituzione che supporta gli individui per l’intero arco della vita…

E’ una forma di “solidarietà obbligata” lì dove tutto il resto manca, Dunque, tutt’al più si può affermare che il familismo è una conseguenza di una lunga emarginazione storica…. Si è solidificata una presunta contrapposizione tra attaccamento ala famiglia e i valori civici, come se fossero due cose incompatibili…

Quindi, concludendo sul familismo amorale?

Il familismo può essere tranquillamente “civico” e correlato positivamente con la fiducia sia interpersonale che istituzionale. Il familismo può essere tranquillamente “morale”.

A cura di Claudio d’Aquino

(ha collaborato Serena Santaniello)

Di Redazione

Claudio D'Aquino, napoletano, giornalista e comunicatore di impresa