Il giornalismo è morto? La macchina di Internet sta distruggendo il mestiere. Repubblica dedica il paginone della cultura a questo interrogativo. E gira la domanda a due guru del settore: Richard Gingras, a capo di Google News, quell’aggregatore di notizie che può contare su oltre un miliardo di lettori unici a settimana in 72 Paesi e in 45 lingue. E a Ethan Zuckerman direttore del Center for Civic Media al Mit di Boston: il suo ultimo saggio, Rewire (Egea), ribalta gran parte dei luoghi comuni sul web e sulla libertà che offrirebbe. Insomma, due punti di vista diametralmente opposti.
Per Gingras, non è mai esistito nella storia un periodo così fertile di opportunità e di strumenti per i media. E anche i giornalisti non sono finiti. «Si possono usare software simili per produrre notizie brevi sui risultati di un match di calcio, per dirne una. Ma non c’è verso che un computer, oggi come domani, sia capace di raccontare una storia così come lo fa una persona. Ed è proprio il raccontare il mondo che non scomparirà mai né potrà scomparire quella capacità tutta umana di capire cosa
è interessante e cosa no». Marshall McLuhan, e più tardi Andy Warhol, ricorda Gingras, “dissero che in futuro chiunque avrebbe potuto diventare famoso per quindici minuti. Alla fine però quel che sta succedendo negli open media è che chiunque può diventare famoso in quindici minuti. Recentemente Espreso Tv, network di Kiev nato da meno di un anno, ha raggiunto il primo posto fra gli eventi più guardati di sempre su YouTube, scalzando il lancio di Baumgartner dalla stratosfera: 17,6 milioni di ore visualizzate in 54 giorni». Non è vero che Internet sta contribuendo alla morte dei giornali. “Avveniva anche in passato che delle testate scomparissero e per inciso attraverso Google News i siti di informazione ricevono 10 miliardi di visite al mese. È bene poi ricordarsi che i giornali sono da sempre uno strumento potente, ma non sono mai stati business fruttuoso, lo credo semplicemente che, nel caso di organi di informazione in crisi, non si sfrutti il potenziale che hanno. I cosiddetti big data, tanto per citare un caso, possono dirci molto della realtà delle cose e con una precisione che non è mai esistita prima. Se solo i giornali li organizzassero come si deve… Sono autentiche miniere d’oro. Una delle più importanti testate americane ha realizzato un’app dedicata alla cucina, e il 98 per cento dei materiali erano ricette pubblicate negli ultimi venti anni. È stato un successo, anche economico. Non ci credevano nemmeno loro».
Per Zuckerman, invece, fra dieci annivremo tanti media basati sulle relazioni personali, ma saremo del tutto carenti di notizie vere. noi vediamo il mondo attraverso i media. Quel che raccontano è il nostro sguardo. Peccato che sia uno sguardo sempre più distorto. «Sappiamo di poter viaggiare ovunque, attraverso la Rete possiamo leggere e guardare qualsiasi cosa ed entrare in contatto con chiunque. Eppure la maggior parte delle persone continua a non allontanarsi troppo da casa e a leggere media locali. Tutti oggi possono raccontare una storia e possono condividerla, ma pochi lo fanno e pochissimi hanno un vero pubblico. Le fonti di informazione stanno diminuendo e sulla Rete sono sempre più provinciali. Non abbiamo mai avuto così tanta scelta, ma alla fine guardiano solo nel nostro giardino. Prima avevamo una gerarchia, quella dei giornali, ora abbiamo libertà. Peccato non si si traduca in una maggior ricchezza». Un declino della qualità dell’informazione che coinvolge anche le testate più importanti: «Dal 1979 al 2009, gli articoli dedicati a quel che succede oltre il nostro uscio di casa si sono ridotti mediamente di due terzi. Nel 2010 negli Usa sono state visualizzate 9,8 miliardi di pagine web sui cento siti di informazione più seguiti, e il 93 per cento riguardava fonti statunitensi. Altrove è peggio: in Francia siamo al 98 così come in Italia o in Cina. Ci sono delle eccezioni, come il New York Times , ma di fatto il mondo che stiamo osservando è sempre più piccolo».
«Facebook, poi, organizza automaticamente quel che compare sulla nostra pagina in base alle “affinità”. Il risultato è che ci imbattiamo in cose che ci piacciono ma che non necessariamente ci servono. Inoltre, il 93 per cento dei nostri contatti sui social network li conosciamo nella vita reale, pur superficialmente. Questo significa che i social network non sono necessariamente un luogo dove avvengono veri scambi. Anzi, tutt’altro». In futuro, le informazioni viaggeranno sull’onda dell’emotività diffondendosi a macchia d’olio. Avremo anche una pluralità di fonti locali. Ma saremo sempre più provinciali.