Ecco il punto sui costi della chiusura dell’Ilva curato da Nadia Garbellini, ricercatrice dell’Università di Bergamo, Dipartimento di Ingegneria gestionale, dell’informazione e della produzione.
“Chi scrive è pienamente consapevole del fatto che gli aspetti economici non sono gli unici ad essere parte del contendere. In particolare, è senza ombra di dubbio centrale la questione collegata alla tutela dell’ambiente e, soprattutto, della salute dei cittadini di Taranto. Tuttavia, a premessa dell’analisi che stiamo per svolgere, è necessario sottolineare che la produzione di acciaio non comporta automaticamente le esternalità negative che sono state in questi anni prodotte dalla gestione della famiglia Riva. Tali esternalità, infatti, sono state il risultato diretto della carenza di investimenti volti ad allineare Ilva agli standard europei. Ciò ci impone una ulteriore osservazione: le stime che stiamo per fornire si basano su una proiezione della situazione attuale.
In realtà, in presenza degli investimenti su menzionati, non solo la produzione di acciaio potrebbe essere conservata, con tutti i conseguenti benefici di carattere economico, ma questi ultimi potrebbero essere ben maggiori di quelli qui stimati, proprio grazie agli effetti moltiplicativi degli investimenti stessi. In altre parole, tali investimenti rappresenterebbero una ulteriore fonte di domanda, in grado di generare benefici sia diretti che indiretti, attraverso lo stimolo dell’indotto ad essi collegato.
In relazione a quanto detto in precedenza, va osservato che chiudere Ilva significherebbe non solo mettere le imprese che da essa acquistano input produttivi nella condizione di doverli importare, ma anche ridurre l’attività di quelle che ne costituiscono l’indotto. Se è impossibile quantificare esattamente i due effetti – che ovviamente dipendono anche da una quantità di elementi aggiuntivi – è però possibile stimarne l’ordine di grandezza, sulla base della struttura produttiva, e quindi delle relazioni inter-industriali, esistente.Prima di entrare nel dettaglio, è utile fornire alcune premesse.
In primo luogo, occorre precisare che l’analisi che segue si basa sulle tavole Input-Output relative al 2010 – le più recenti messe a disposizione dall’Istat – e su una serie di dati aggiuntivi, tra cui i dati di bilancio di Ilva relativi allo stesso anno. Da questi ultimi si evince, osservando le figure relative a fatturato, valore aggiunto e consumi intermedi, che Ilva rappresenta circa l’8% dell’intero settore metallurgico nazionale;[4] poiché il prodotto interno lordo di quest’ultimo ammonta allo 0.59% del totale – cioè oltre 9,5 miliardi di euro – si può stimare che Ilva partecipa alla produzione del reddito nazionale nella misura dello 0.05% circa, cioè oltre 750 milioni di euro. Questi numeri – di per sé già rilevanti, se consideriamo le ultime stime di crescita del PIL italiano per il 2015 – non sono però sufficienti a fornire una misura dell’effetto che una eventuale chiusura di Ilva potrebbe avere sul sistema produttivo italiano. Infatti, come già sottolineato in precedenza, non solo Ilva produce acciaio che viene utilizzato come input da altre industrie manifatturiere – le quali quindi dovrebbero importarlo – ma è a sua volta a capo di un indotto che inevitabilmente si contrarrebbe, con evidenti conseguenze in termini di occupazione e redditi. Una stima di massima degli effetti di una eventuale chiusura di Ilva deve quindi tenere conto anche di questi fattori.
Considerando il peso di Ilva sulla produzione totale del settore metallurgico (come abbiamo detto, l’8%) e il fatto che il 16% della sua produzione è destinato all’esportazione (contro una media del 37% per l’intero comparto), possiamo concludere che Ilva contribuisce per il 10.35% alla produzione intermedia (cioè del capitale circolante venduto ad altre imprese come input produttivi), e per il 5,18% alle esportazioni – quindi per il 4.67% alla produzione della domanda finale – dell’intero comparto. Con queste cifre, e mantenendo ferma la struttura produttiva (vale a dire i coefficienti tecnici) del 2010, possiamo concludere che la chiusura di Ilva causerebbe, nel complesso, una perdita di Pil pari allo 0.24%, equivalente, prendendo a riferimento il Pil del 2013, a quasi 4 miliardi di euro (va sottolineato che tale figura comprende anche le minori importazioni derivanti dalla contrazione dell’indotto).
In termini di occupazione – facendo una stima basata sui dati Istat relativi all’occupazione per branca in ore di lavoro e sulle proporzioni su menzionate – lo stabilimento di Taranto occupa circa 9000 unità full time equivalent. Oltre all’occupazione diretta, è ovviamente necessario considerare anche l’indotto. Tuttavia, la definizione di indotto normalmente utilizzata considera unicamente le imprese direttamente connesse a quella in questione. Quello che utilizzeremo qui, invece, è un concetto più ampio: quello di subsistema, vale a dire l’insieme di tutte le relazioni inter-industriali dirette e indirette. In altre parole, in questa accezione l’indotto include Ilva, le imprese che ad essa forniscono input produttivi, quelle che a loro volta li forniscono a queste ultime, e così via. Calcolando quindi le unità di lavoro totali, alle circa 9000 direttamente impiegate in Ilva se ne devono aggiungere altre 16000 circa.
Veniamo infine alla bilancia commerciale. In base alla stima sopra riportata, supponendo che le importazioni finali – cioè le importazioni di beni di consumo e di investimento – rimangano costanti, quelle intermedie – vale a dire le importazioni di input produttivi da parte delle imprese italiane – aumenterebbero di circa 2 miliardi e 385 mila euro. Le esportazioni, per contro, diminuirebbero di poco più di un miliardo di euro. A conti fatti, quindi – immaginando che l’acciaio importato abbia lo stesso prezzo di quello prodotto da Ilva, cosa niente affatto scontata – una chiusura dello stabilimento condurrebbe ad un deterioramento della bilancia commerciale pari a circa 3,5 miliardi di euro”.
Un ottimo punto di partenza per affrontare la questione con serietà ed obiettività.