di Lucrezia Lerro

Io non mi perdo nella mia irragionevolezza, nelle lacrime o in un Kleenex. Nell’analgesico che per poco cancella il male. Che offusca il lutto e soprattutto la paura di generare. Che addormenta il flusso del pensiero. Che imbroglia il malumore e fa sbandare. Io non mi perdo, vorrei essere spensierato, ma non mi perdo. Non mi odio del tutto e non mi uccido. Non mi ribello più di tanto alle richieste dell’amore. Mi guardo e mi ripenso un po’ disorientato. Ti guardo e provo un po’ di compassione. Mi comprendo? Mi vedo nel mio specchio, e a volte, se sono di buonumore, mi capita di amare persino un mio difetto. Se non fosse per me la vita non sarebbe possibile. Non sarebbe prevista nel bene e nel male. Io mi arresto mentre la vita fluisce. Io mi svesto mentre vorrei mentire. E poi mi irrito perché so che dovrò spiegarmi, che dovrò anche arrabbiarmi per resistere, per non immobilizzarmi in casa.

Se solo gli altri riuscissero a decifrarmi con più calma mi insinuerei tra le pieghe della vita, adagio, con facilità. Ma né medici, né psichiatri si intendono delle mie passioni miste ai turbamenti esistenziali. A volte di primo mattino mi capita persino di ridere a crepapelle e di essere felice.

Se qualcuno provasse a decifrarmi mi preoccuperei meno di precipitare. Di addormentarmi sulle spine. Io, al di là delle osservazioni sul mio conto, la trasformo la mia angoscia, le do forma, corpo, spazio. La reinvento. La rivoluziono senza recriminare. Se non fosse per me non ci sarebbero gli angeli sulle vetrate delle cattedrali. I bambini nei cortili, le giovani mamme, in attesa, al sole. Faccio fatica ad ammetterlo ma è vero, è tutto vero, ogni mia goccia è vera, la lotta è vera e la pena, e la fatica di capire fino in fondo chi si è. Il desiderio d’amore è vero. E la bella e brutta eredità da ripulire per poter ammettere di esistere a tutte le ore del giorno. Io non voglio tormentarmi o perdermi in un solo sintomo, nel calendario, nell’ormone più piccolo che trasforma l’umore. Che gonfia e ripulisce un corpo da cima a fondo. Vorrei risvegliarmi in una goccia di profumo materno, una di quelle che traspira dagli indumenti femminili piegati nei cassetti dei comò. Io nelle stanze che promettono conquiste, che profumano di nylon, posso entrarci quando mi pare. Specchiarmi, rovesciarmi nelle palpebre scintillanti della sera. Non vorrei errare sul petalo di un fiore o nelle viscere di un corpo affaticato. Vorrei fiorire, durare. Innamorarmi di un sogno ed essere il sogno d’apertura del viaggio. Vorrei calzare le scarpe migliori per andare leggero nel mondo, per percorrere strade immerse nel vuoto, sottomesse in modo speciale al cielo. Strade che conducono a nuove argomentazioni, a nuove strade.

Da un po’ di tempo a questa parte mi arrabbio meno. Piango meno. Rido soprattutto quando capisco che non c’è da prendersi troppo sul serio. Urlo amore come sempre ma con poca voce. Perdere il controllo non è mica una colpa. Perdersi non è una colpa. Farsi male non è una colpa. Ma chi ha inventato le colpe? Io, durante i miei giorni, tesso aria e assenza e non so dove andrò, e non so come finirò. Me ne starei a letto a far l’amore per tutto il giorno. Mi riparo la pelle e gli occhi che non si spengono all’urlo volontario nella stanza rivoltata, imbellettata di malinconia. Se non dormo ingrandisco il distacco. Mi svuoto in un’emorragia per arrugginire le chiavi che non aprono, che non girano come vorrei, che non strisciano sulle lenzuola macchiate dal disamore, che non concertano un ritorno o uno sguardo che tiene le disillusioni. Mi strofino le mani e il cuore geloso che rinvigorisce il tormento nella città lampione, nella tasca del mio malumore. Nel letto marino o di città che promette fuoco e riposo. Eccomi qui da solo e consenziente, mi indirizzo nell’ultimo urlo, nello schianto, nella vita.

Avevo un lupo nero nella pancia, un altro bianco, chi dei due ha vinto?

da “Il Sangue Matto”

Illustrazione di Martina Paolino