– di Melina Franco –
Doveva uscire da lì. Lo sapeva, eppure non lo capiva.
Se ne restava al buio, rannicchiato in tre dita di pantano, scosso da brividi violenti. Aveva della terra incrostata nelle orecchie e nelle narici, ma il grosso era riuscito a vomitarlo poco prima, quando era rinvenuto in quell’inferno nero.
Qualcosa lassù era andato storto, doveva esserci stata una frana o forse un’alluvione, perché all’improvviso era venuta giù una cascata di fango.
Le gallerie della miniera nella quale lavorava da quasi due anni erano state invase da un fiume di melma che aveva spazzato via ogni cosa, e se Tod era ancora vivo, lo doveva probabilmente ai ganci dell’imbragatura, che si erano impigliati fra le rocce di una parete e avevano impedito che venisse trascinato fino ai pozzi.
I pozzi. La squadra era radunata proprio sul limitare di una di quelle spaventose voragini quando c’era stato il finimondo.
Sono finiti di sotto. Realizzò Tod, agghiacciato. Sono finiti nel pozzo.
«Nononononono…» Tod arrancò nel fango, sputò la terra che gli era rimasta fra i denti e soltanto allora si accorse di avere ancora il casco assicurato alla testa. La corrente era saltata, ogni cosa era stata spazzata via e il silenzio era soffocante, interrotto solo da un rumore che al momento l’uomo non riconosceva, uno scricchiolio profondo e costante che provò a ricacciare in fondo alla mente intanto che cercava a tastoni il bottoncino della torcia frontale dell’elmetto. Al di là di ogni previsione, la lampadina si accese e Tod poté guardarsi intorno.
Il primo pensiero che riuscì a formulare, fu che sarebbe stato meglio rimanere al buio, all’oscuro di tutto: la devastazione era totale, fango e detriti erano ovunque, uno dei pesanti carrelli di metallo giaceva ammaccato in un angolo e i binari erano spariti sotto palate di melma, ma la cosa veramente terribile fu scoprire che alcune travi a sostegno della galleria si erano spezzate e le altre stavano cedendo.
Sta franando tutto, Tod.
«Chi ha parlato?» quasi urlò l’uomo, alzandosi finalmente in piedi e avviandosi barcollante verso il pozzo in fondo al quale dovevano essere finiti i suoi compagni. «Nessuno» mormorò un istante dopo, scuotendo la testa. «È solo la tua testa, Tod. Sei spaventato.»
La miniera sta collassando. Pensò, arrancando verso l’interno.
Devi uscire da qui. Te ne devi andare.
Sì, dovrei andarmene, ma voi siete finiti tutti quanti in quel pozzo «e qualcuno, per assurdo, potrebbe essere sopravvissuto. Jade o Mike, o il negro…»
Sto parlando di nuovo da solo.
Non si voltò in direzione dell’entrata della galleria, forse anche perché in cuor suo sapeva bene che la frana e il fiume di fango dovevano averla ostruita del tutto, ma proseguì incespicando e affannando verso il pozzo.
Cercò di ricordare le svolte giuste per evitare di perdersi nel labirinto di cunicoli e raggiunse in poco tempo la voragine, la stessa dalla quale erano stati inghiottiti i suoi compagni, la recinzione di legno che ne delineava i margini e la marea d’acqua nera che li aveva travolti tutti.
Tremante e ignaro di avere due costole rotte e diversi tagli su braccia e gambe, Tod si avvicinò al limite del baratro e guardò in basso.
Il buio e il vuoto lo sconvolsero.
Sono morti. Deglutì, gli occhi sbarrati a fissare il nulla sotto di lui. Non c’è nessuno qui, nessuno… «Ehi» gridò. «C’è qualcuno? Qualcuno mi sente?»
A rispondergli fu soltanto la sua terribile eco.
«Mike, Hassan…» Tod cominciò a piangere. «Ragazzi, ragazzi… un attimo prima eravamo qui e… ehi, c’è qualcuno di sotto? La miniera sta crollando, dobbiamo uscire, possiamo scavare…»
Le sue farneticazioni echeggiarono nelle gallerie deserte per istanti lunghi e terrificanti, poi si dispersero e calò di nuovo il silenzio.
Non possiamo risponderti, Tod, ma siamo ancora tutti quanti qui, sepolti sotto tonnellate di melma gelata. Il fango ci ha riempito gli occhi e non abbiamo più visto, poi ci ha riempito il naso e la bocca e non abbiamo più respirato, poi ci ha riempito le orecchie, eppure continuiamo a sentirti. La tua voce possiamo sentirla, Tod, sei tu a non poter udire la nostra. Esci tu, Tod, vattene.
«Chi c’è? Jade, sei tu? Chi è che parla? Non riesco a capire.» Sto impazzendo. Ho battuto la testa, stavo affogando, mi ha dato di volta il cervello.
«Jade» urlò ancora, sporgendosi pericolosamente nel vuoto.
Un alito di vento lo investì, spingendolo all’indietro.
Ho il collo spezzato, le braccia spezzate. Ho la bocca piena di terra. Ho freddo. Non posso rispondere, Tod. Vattene, Tod.
Era Jade. In qualche modo era Jade. Una chiazza bollente scurì i pantaloni già inzuppati di Tod, che scivolò verso il cunicolo alle sue spalle, senza staccare gli occhi dalla voragine.
«Non posso uscire. È franato tutto…»
Ti stanno cercando. Sei rimasto svenuto per più di un giorno, Tod, sei ferito ma sei vivo. Vattene, esci da qui. Le travi sono spaccate e non reggeranno a lungo. Noi non possiamo fare nulla, noi siamo rimasti sepolti…
Strisciando all’indietro, Tod raggiunse i binari, ma non trovò il coraggio di andarsene. I suoi compagni erano morti, eppure erano ancora tutti quanti lì. Le loro voci erano un’eco incessante in quei corridoi abbandonati e freddi. Non era dallo scricchiolio delle travi che fino a quel momento la mente di Tod aveva cercato di evadere, bensì da risonanze che non erano più di questo mondo.
«Non posso andarmene così. Non posso lasciarvi qui.»
Non c’è niente che tu possa fare. Vattene.
Sai pregare, Tod? Faresti una preghiera per me?
«Nicole, sei tu? Mike? Hassan?»
Pregheresti per me, Tod?
Lo dissero all’unisono, un coro di voci che risalirono dal baratro e si dispersero rapidamente.
«Non so pregare» gridò l’uomo di rimando, muovendosi lento verso la voragine. «Non conosco neanche una parola della vostra religione, non so neanche come chiamiate il vostro dio.»
Si fermò di nuovo sul limitare dell’abisso nero, piangendo e battendo i denti per il freddo, la paura, l’impotenza. Poi, come un lampo di luce nelle tenebre, gli venne in mente la medaglietta che Jade, la ragazza dai capelli color carota, gli aveva donato pochi giorni prima. La indossava ancora: Santa Barbara.
Si strappò dal collo la catenina d’oro e strinse quel medaglione come fosse la cosa più preziosa che avesse mai toccato, poi allungò un braccio verso il precipizio e la lasciò cadere.
«Benedici, Santa Barbara, i morti nel seno della terra del tuo Signore» gridò. «Io che non conosco i tuoi miracoli e non servo la tua fede ti prego ugualmente di essere il loro faro in queste segrete vene. Benedici, protettrice dei minatori, il loro cammino verso l’Assoluto.»
Quando ebbe terminato, Tod se ne rimase a fissare il vuoto per qualche momento, e quando fece per andarsene, dal basso si levarono risate argentine e sospiri gioiosi, e un vento profumato di fiori e di mare e di vita, che lo spinse verso la galleria.
Esci da qui, Tod. Stanno scavando, ti tireranno fuori. Esci da qui e salvati. Saremo salvi anche noi.
Tod si voltò e cominciò a correre.