di Melina Franco
Mi sedetti sulla panchina di pietra più vicina al cancello che dava sul giardino, dove crescevano rigogliosi gli aranci e i meli, e il sole batteva fin dal primo mattino.
Le aiuole al di là della cancellata erano punteggiate da una miriade di puntini rossi, minuscole fragoline di bosco che sarebbero rimaste lì a marcire fino alla fine dell’estate, un po’ come me, che me ne stavo immobile a fissare le fronde verdi e il cielo terso.
In fondo al viale, dove svettava la torre dell’orologio dell’immenso palazzo bianco in cui alloggiavo, all’ombra di un ontano, c’era poi la fontana: di forma circolare, non molto grande, adornata da pesci di pietra che sputavano acqua scintillante a tutte le ore del giorno e della notte.
Mi ritrovai a chiedermi se fosse abbastanza profonda. Sì, se la fontana fosse abbastanza profonda da lasciare che vi annegassi. In fin dei conti, quello sembrava veramente un buon posto per cessare di esistere.
L’ultima volta che ci eravamo incontrate, la donna con la quale avevo conversato più spesso negli ultimi tre mesi aveva detto che quel cupo senso di morte che mi opprimeva, aveva sempre fatto parte di me e che invece di scacciarlo, avrei dovuto provare ad accoglierlo. Invece di sfuggire alla tua tendenza, dovresti cercare di comprenderla, aveva detto. Solamente guardandola in faccia ed elaborandola sarai in grado di andare avanti.
Ma quando accedevo al giardino, la fontana restava sempre il mio primo pensiero. Era abbastanza profonda? L’acqua che conteneva, che doveva arrivarmi pressappoco alle caviglie, sarebbe stata sufficiente?
Voglio veramente annegare?
L’orologio batté le 10 e al terzo rintocco udii un paio di porte sbattere e subito dopo alcune donne vestite di bianco si sparpagliarono lente nel cortile e il giardino.
«Vogliamo rientrare?» disse una voce alle mie spalle, in tono gentile.
Mi voltai a guardarla e l’infermiera sorrise.
Annuii e ricambiai il suo sorriso.
«Non rimarrai qui a lungo. Il tempo di rimettere insieme i pezzi e tornerai alla tua vita.»
Annuii ancora e mi accinsi a seguirla.
Una vita… la mia non era che un vago ricordo. Un momento prima ero lì, integra e scintillante, quello dopo mi schiantavo al suolo frantumandomi in migliaia di pezzi.
L’ombra di quella che ero, si era chinata disperata e con le braccia e le mani aveva cercato di radunare le mie misere macerie, niente di speciale, soltanto un’intera esistenza e tutto quello in cui credevo, tutto quello in cui mi riconoscevo e per cui vivevo, ridotto a un cumulo di schegge e polvere senza valore.
Povera ombra! Voleva a tutti i costi rimettere assieme qualcosa, voleva ripulire, riordinare, lavare via quel disastro per poter poi fingere che nulla fosse accaduto. Povera ombra!
L’infermiera non poteva capire e non conoscevo parole per riuscire a spiegarle una tale disfatta.
Percorremmo in silenzio la successione di arcate riparandoci dal sole, un passo dietro l’altro lungo il pavimento in cotto arancione, e raggiunto il lato opposto del cortile, l’infermiera spinse una porta e mi fece cenno di entrare.
«Andrà bene, vedrai.» Mi rassicurò. Lo faceva sempre. Ogni mattina. Provai molta tenerezza nei suoi riguardi. Era giovane, dovevamo avere all’incirca la stessa età, eppure io mi sentivo terribilmente vecchia e stanca.
«Sei sana e intelligente» continuò. «Hai vissuto una brutta esperienza che ti ha segnata, ma tornerai più forte che mai e ricomincerai da zero. Hai tutte le carte in regola per farlo.»
Sospirai e non seppi proprio cosa risponderle.
Per quanto ne sapevo, la mia ombra era ancora lì a frugare fra le mie rovine, china fra la polvere per un tempo eterno perché quando crolli, il tempo non esiste. “Raccogli tutti i pezzi. Rimetti insieme i pezzi.”
Laddove l’altro ha distrutto, io avevo cercato di ricostruire. A tutti i costi.
Ma non funziona così.
«Verrò a prenderti alle 15 per l’ora di musica. Ti farà bene.»
La ringraziai e prima di rientrare, lanciai uno sguardo alla fontana, adesso molto vicina, nitida, presente. Nelle orecchie avevo ancora il fragore di Me che andavo in pezzi.