di Melina Franco
Ci lanciammo nel vuoto nel momento stesso in cui faceva la sua apparizione la luce, un’aurora accecante che riempì la cupola del cielo di colori scintillanti, scacciando la gelida notte delle lande dell’ovest.
«Non morire» gridai con quanto fiato avevo in corpo, mentre io e il più giovane dei miei soldati precipitavamo dal camminamento del forte nel quale eravamo stati a lungo prigionieri.
L’impatto fu tremendo. Andammo a sbattere contro le mura della rocca e finimmo fra la chioma di un albero rinsecchito, poi rotolammo giù per il pendio. La coscienza di quanto stava accadendo non mi abbandonò mai e la sola immagine che mi rimase fissa nella testa, fu quella delle nostre ossa frantumate nell’ammasso di carne che chiamavamo corpo, intanto che le rocce e i rovi aprivano nuove ferite sulla nostra pelle.
Poi finalmente persi i sensi.
Furono i latrati dei cani a ridestarmi, lamenti lontani e terribili.
Ci hanno fiutati pensai prima ancora di riuscire ad aprire gli occhi, prima ancora di sentire il bruciore dei tagli e il dolore delle costole rotte.
Sbattei le palpebre e vidi su di me un cielo di piombo, freddo e vuoto, che mi raggelò. Poi mi guardai intorno alla ricerca del ragazzo che anni prima avevo pescato dai bassifondi di Alto Focolare e che in poco tempo era diventato il mio miglior combattente, e lo trovai riverso ai piedi di un albero enorme.
Mi rialzai a fatica e zoppicai verso di lui, già temendo di doverlo seppellire, angosciato al pensiero di essere rimasto solo e di aver sbagliato a organizzare quella dannata fuga da Forte Darramot, che era costata la vita a tutti quanti i miei uomini.
«In piedi, soldato» mormorai inginocchiandomi al suo fianco.
È morto. Pensai rabbrividendo. Lo afferrai e me lo rigirai fra le braccia cercando di scorgerne il volto nascosto dai capelli che gli si erano appiccicati sulla fronte.
È morto. Mi ripeté la parte più provata di me, quella nel punto più buio della mente. Il ragazzo era esangue, immobile, e nonostante cercassi di valutare le sue ferite, non riuscivo a staccare gli occhi dallo squarcio sanguinolento che gli si apriva dall’orecchio sinistro fin dietro la nuca.
L’ululato di un cane mi fece trasalire, e senza pensarci ancora, cominciai a scuotere il ragazzo imprecando, pregando gli dei che si svegliasse prima che fossi costretto ad abbandonarlo ai piedi di quell’albero, alla mercé del nemico.
«Dobbiamo muoverci» supplicai, prendendogli il volto fra le mani. «Dobbiamo andarcene, soldato, questo posto non è sicuro.»
È morto ribadì la voce nella mia testa stai parlando a un fottuto cadavere.
Poi Olegan spalancò gli occhi, neri come non li avevo mai visti, due pozzi terrorizzati e urlanti, e ci ritrovammo a fissarci l’un l’altro mentre cominciava a nevicare.
«Mio lord» gracchiò il ragazzo stringendomi un braccio fino a farmi male. «Ho cercato di farcela, ci ho provato, ma…»
«Calmati, siamo ancora tutti interi» lo rassicurai, sentendomi trafitto dal suo sguardo sgomentato. «Siamo vivi e siamo liberi.»
Intanto i cani abbaiavano e sembravano più vicini.
Olegan si guardò intorno confuso, poi alzò gli occhi al cielo e si bagnò il viso con i primi fiocchi della neve d’inverno. «Ci hanno trovati?»
«I segugi devono aver sentito l’odore del nostro sangue.»
Olegan si tastò la ferita alla testa. «Mmmh. Ti ho rallentato, mio lord.»
«Hai mantenuto la tua promessa» replicai, sforzandomi di sorridere. «E poi zoppico. Devo essermi storto una caviglia. Da solo non sarei arrivato molto lontano. Piuttosto lascia che ti ripulisca.»
Presi a rovistare nel fagotto che avevo rubato a una guardia durante l’evasione e tirai fuori del vino. «Adesso proverò a disinfettarti» lo avvertii, togliendomi di dosso la cappa e facendo a brandelli la tunica per ricavarne qualche benda, incurante del gelo. «Di meglio non posso fare. Dobbiamo solo sperare di riuscire a raggiungere l’avamposto più vicino: lì saranno in grado di medicarti.»
«Farò da solo, Lord Darsil, non ti sporcherai le mani con il mio sangue» e prima che potessi replicare, mi portò via la fiaschetta e si allontanò barcollando.
Poco dopo ci muovevamo verso est, rallentati dalla mia caviglia slogata ma comunque abbastanza spediti, diretti verso una vasta macchia di abeti che ci avrebbe fornito un misero riparo dalla neve che incalzava, palesando ogni nostro spostamento.
Raggiungemmo la boscaglia quando era prossimo il crepuscolo, accompagnati dai latrati dei cani e da una vera e propria tormenta.
Proseguimmo il cammino nonostante i dolori, braccati come bestie, e non ci fermammo neanche quando le tenebre calarono del tutto, sperando soltanto di non perdere l’orientamento in quell’oscurità tanto fitta, continuando ad aggirare acquitrini fangosi e speroni di roccia sferzati dalla bufera.
Più di una volta credetti di non farcela. Durante la mia vita avevo combattuto, giostrato e sconfitto uomini più forti e più abili di me, e mi ero sentito forte, invincibile, il migliore. Sebbene avessi ereditato Alto Focolare da mio padre, avevo meritato il mio titolo comportandomi in modo impeccabile; persino rinchiuso nelle segrete di Forte Darramot avevo mantenuto intatta la mia integrità e la mia determinazione, tuttavia, quella notte, asfissiato da neve e vegetazione, mi sentii insignificante.
«È per questo che ho lasciato che i miei uomini si sacrificassero?» sbraitai, avvilito. «Per morire in un bosco senza nome, fra le fauci di qualche cane bastardo?»
Olegan, che camminava poco più avanti, si voltò a guardarmi. «Parli così perché sei esausto, mio lord. Non dimenticare che non hai esitato a saltare nel vuoto con la sola speranza di onorare il loro sacrificio. I tuoi soldati hanno coperto la nostra fuga perché permettermi di tornare nelle terre dell’est, ed è proprio quello che stai cercando di fare.»
Scossi il capo con veemenza. «Avremmo dovuto aspettare i rinforzi» sbottai. «Ser Dovàs, Ser Balii, Lord Bargon delle valli, tutti quelli che mi erano fedeli sarebbero venuti a contrattare…»
«Prima o poi.»
«Prima o poi» gli feci eco, scrutandolo nel buio. Il suo volto smunto mi inquietava; c’era qualcosa in lui che mi turbava, eppure non riuscivo a capire cosa fosse. Era come se di colpo Olegan fosse diventato un altro, come se la caduta lo avesse invecchiato e irrimediabilmente trasformato.
«Quello che so» continuò Olegan, «è che il Signore di Alto Focolare stava marcendo in una lurida cella e che spettava a noi liberarlo.»
Feci per controbattere, ma un ululato lontano mi costrinse a ingoiare dubbi e sensi di colpa, e a rimettermi in marcia al fianco dell’unico compagno che mi fosse rimasto, seguitando ad annaspare fra la neve fino a quando la tormenta non si tramutò in un acquazzone epocale.
Trovammo allora un anfratto nella roccia e decidemmo infine di fermarci: all’inferno i Darramot e i loro segugi, noi eravamo allo stremo e avevamo bisogno di fare una sosta all’asciutto, di capire quante costole intatte ci rimanessero e quante ferite avessero ripreso a sanguinare.
«Se dovessero arrivare i cani con i loro padroni, li affronteremo» sentenziai quando Olegan si appostò all’ingresso dell’antro. «Adesso vieni a sederti al mio fianco e cerca di recuperare le forze. Hai perso troppo sangue.»
«Riposa pure, mio lord, io farò la guardia» ribatté il soldato, stringendosi nella cappa scura. «Non permetterò a nessuno di disturbarti e in ogni caso, con questo tempo non credo riusciranno mai a raggiungerci.»
Non seppi che cosa dire. Se il ragazzo era stanco e dolorante, certamente non lo dava a vedere, e io ero troppo scosso per battibeccare con lui. Senza aggiungere altro, mi raggomitolai in un angolo della piccola caverna e dopo pochi minuti ero già addormentato.
“Ho mantenuto la mia promessa” disse Olegan, che camminava alle mie spalle.
Mi voltai a guardarlo, ma quello che vidi mi gelò il sangue nelle vene: il volto del ragazzo era completamente squarciato, parte del cranio era saltata via e il sangue zampillava a fiotti dalla testa fracassata.
“Ho mantenuto la mia promessa” ripeté, avanzando verso di me.
Cercai di ritrarmi al suo tocco, provai l’impulso di scappare lontano da quell’abominio, ma ero paralizzato.
“Non volevo questo” gridai, sentendo le lacrime pungermi gli occhi.
“Hai idea di quanto mi sia costato? Hai idea di quanto mi sia costato? Hai idea di quanto mi sia costato? Hai idea…”
Mi svegliai di soprassalto e ricacciai dentro un urlo. Tremante, mi guardai intorno alla ricerca di Olegan e lo trovai accovacciato di fronte a un fuocherello che doveva aver acceso mentre ero assopito, intento ad arrostire dei pezzi di carne che aveva infilzato su uno spiedo improvvisato.
«Mi sono perso qualcosa?» gli domandai tirandomi su. Lo raggiunsi zoppicando e mi sedetti di fronte a lui, godendo del tepore del fuoco.
«Hai dormito per molto tempo» mormorò il ragazzo evitando il mio sguardo. «La tempesta deve aver cancellato i segni del nostro passaggio e i Darramot pare si siano ritirati. I cani hanno smesso di abbaiare prima che facesse giorno. Questa notte non siamo stati i soli a patire.»
Annuii soddisfatto e lo ringraziai per essere rimasto a vegliare sul mio sonno.
Olegan fece spallucce e si rigirò lo spiedo fra le mani. «All’alba sono andato a cercare del cibo e non sono riuscito a cacciare che una misera lepre, ma ho riempito di neve la fiaschetta e quando si scioglierà, avrai dell’acqua da bere. Fuori ha ripreso a nevicare.»
Nonostante cercasse di mascherarlo, Olegan era visibilmente agitato. Nel momento in cui i nostri occhi si incrociarono, vi lessi dentro uno sgomento tale da inghiottirmi. «Cosa ti è successo?»
«Ho faticato a ritrovare la strada» rispose il ragazzo, senza smettere di fissarmi. «Sembrava che nella neve… le mie tracce…»
«Le tue tracce cosa?»
Olegan mi rivolse uno sguardo supplichevole e sentii lo stomaco serrarsi in una morsa terribile. «Dimmi cosa» strepitai.
«Non posso» mormorò il ragazzo, alzandosi di scatto. Mi porse lo spiedo al di sopra delle fiamme e raggiunse l’ingresso del rifugio.
«L’avamposto più vicino si trova sulle rive del fiume Parvento» dissi dopo un lungo silenzio. Attizzai il fuoco che rischiava di spegnersi e rigirai la lepre ormai cotta a puntino. «Non ho una mappa alla mano, ma tagliando per i boschi dovremmo raggiungerlo in un paio di giorni al massimo. Lì ci aiuteranno. Sei ferito e la caduta deve averti sconvolto.»
Olegan si limitò ad annuire e quando lo pregai di consumare assieme a me il cibo che aveva cacciato, si rifiutò: «Mi lusinghi, mio lord, ma non ho alcun appetito.»
Ci rimettemmo in cammino nel primo pomeriggio di quello stesso giorno, sotto una nevicata leggera, e non scambiammo neanche una parola.
Cercando di mettere quanta più distanza possibile fra noi e Forte Darramot, ci fermammo solo a notte fonda, quando fu impossibile proseguire, e allora Olegan accese un nuovo fuoco e si sedette con la schiena appoggiata a un albero, a fare la guardia.
«Questa volta resto sveglio io, soldato» mi offrii, conscio che il ragazzo era digiuno e non chiudeva occhio dal giorno della fuga.
Olegan scosse la testa. «Non ho sonno, mio lord. Riposa tu anche per me.»
Mi sentii turbato, ma non trovai parole per replicare.
Il terzo giorno che trascorremmo all’addiaccio ci lasciammo alle spalle il bosco di abeti e attraversammo un piccolo valico fra due colline. Quando il sole morente incendiò il paesaggio innevato, potei udire in lontananza il fragore del fiume Parvento che scorreva impetuoso nel suo letto, ne sentii l’odore umido e carezzevole, e respirai a pieni polmoni la fragranza fresca e inconfondibile delle mie terre.
Sostammo in una macchia di noccioli e castagni, e come in precedenza, Olegan accese un fuoco, procurò del cibo e si mise di guardia.
«Penso che domattina saremo in grado di scorgere uno dei nostri accampamenti di confine» dissi senza mascherare la contentezza. Immaginai il Parvento, scintillante come un serpente d’argento fra il manto innevato e sul lato occidentale, il primo avamposto di Alto Focolare, le torrette, gli stendardi rossi e gialli della mia casata e all’orizzonte i Monti Adamantini, ai piedi dei quali sorgeva la mia fortezza. In un istante dimenticai le pene sofferte, il senso di vuoto che mi appesantiva il petto, gli occhi spaventati del mio compagno di viaggio.
Olegan sorrise e annuì, ma era irrimediabilmente distante.
La notte trascorse tranquilla e prima del sorgere del sole eravamo già in marcia. Poche ore dopo l’alba, i boschi cedettero il posto a un’immensa distesa immacolata, che si srotolò davanti a noi per chilometri, a perdita d’occhio, e fu allora che Olegan si rifiutò di proseguire.
Non provai alcuna sorpresa. La paura che mi aveva attanagliato le viscere nei giorni precedenti era scemata, e alle sue parole avvertii solo una profonda tristezza.
Rimasi a guardarlo per momenti lunghi un’eternità, studiando le sue fattezze, imponendomi di non dimenticare nessun particolare dell’uomo che a ogni costo mi aveva ricondotto a casa, e con i piedi che affondavano fino alle caviglie nella neve, mi parai di fronte a lui, raccolsi tutte le forze che mi rimanevano, e sorrisi.
«Di cosa hai paura, soldato?»
«Di morire, signore.»
Lanciai un’occhiata alle sue spalle e vidi le mie impronte che si perdevano nella boscaglia. Solamente le mie.
Rabbrividii e tornai a guardarlo.
«Allora posso dire di aver viaggiato con l’uomo più coraggioso che abbia mai conosciuto e certamente il più devoto» mormorai, senza staccare gli occhi da lui. «E la morte non è altro che una diversa forma di esistenza.»
«Ho mantenuto la mia promessa, mio lord?» mi chiese Olegan con voce rotta, restando immobile.
Annuii. «Lo hai fatto, e da oggi sarai ricordato come il Paladino di Alto Focolare, colui che guidò Lord Darsil oltre i boschi innevati, sfidando la logica degli uomini e degli dèi.»
Il volto di Olegan si illuminò e io, vincendo ogni timore, mi protesi per abbracciarlo, ma non afferrai che aria gelida. Il mio compagno era scomparso.
Mi rimisi in cammino quasi subito e mi voltai spesso a fissare il limitare del bosco nella speranza di rivederlo un’ultima volta, ma invano.
Qualche minuto prima che le forze mi abbandonassero indifeso in quelle lande, un drappello di soldati in ricognizione venne in mio soccorso e finalmente fui scortato al sicuro, all’avamposto di Alto Focolare.
Quelli che seguirono furono mesi di battaglie e di vittorie. Radunai migliaia di uomini e conquistai le lande dell’ovest: mi impadronii delle fortezze nemiche, guadagnai la fedeltà di molte casate e quando arrivò l’estate, feci realizzare una grande strada che collegava Forte Darramot alla cittadella di Alto Focolare, e la chiamai: il Cammino di Olegan.
Negli anni a seguire, ogni inverno cavalcavo fino a Forte Darramot e poi mi aggiravo in solitudine fra i boschi innevati della zona; mi addentravo in anfratti rocciosi, accendevo fuochi, ripercorrevo ogni volta i passi che avevo mosso assieme al mio paladino e lo rievocavo quasi febbrilmente, tuttavia, Olegan non lo rividi mai più.
L’autrice
“Melina Franco è nata a Napoli nel 1988 e vive ancora nel centro storico della città partenopea.
È una giovane autrice di racconti di genere fantastico, horror e surreale.
Scrive occasionalmente per la rivista mensile “Verde Età” e ha pubblicato uno dei suoi racconti in un’antologia fantasy, a seguito della vittoria di un concorso indetto da Historica Edizioni.
Attualmente lavora come editor freelance ed è in procinto di pubblicare la sua prima raccolta di racconti