di Melina Franco

 

Non feci in tempo a mettere piede nell’ascensore che ricordai di aver lasciato dentro la spazzatura. Ripercorsi il corridoio grigio dell’immenso stabile in cemento armato nel quale ero capitata e infilai la chiave nella serratura della porta. Sgattaiolai dentro come una ladra, silenziosa e svelta, col cuore in gola, e mi guardai intorno vigile.

Erano da poco passate le undici, era una bella mattinata di giugno e faceva già molto caldo, ciò nonostante avevo i brividi e la casa era completamente avvolta nella penombra: fra quelle quattro mura, al quinto piano con terrazzo, finestre e vetrate, era sempre buio.

Mi fiondai in cucina, intanto che la porta d’ingresso mi si richiudeva alle spalle scricchiolando, e recuperai la busta dalla pattumiera. Vicino al cestino, con le schifose zampette all’aria, uno scarafaggio piccolo e nero si dimenava per la sopravvivenza.  Ingoiai un urlo e lo schiacciai, arrabbiata.

Avevo preso in affitto quell’appartamento per disperazione. Quando mio marito era passato dagli abusi psicologici alla violenza fisica, e mi aveva spedita al pronto soccorso con il volto tumefatto e due costole incrinate, avevo finalmente raccattato le mie poche cose e abbandonato il tetto coniugale. I primi tempi erano stati duri, riuscivo a pagare l’affitto con enorme difficoltà, ero povera, mi sentivo smarrita e completamente sola, e in quella casa non avevo trovato nessun conforto. Sebbene avessi fatto ritinteggiare le pareti di un senape sgargiante e personalizzato ogni angolo con le mie cose, in quel luogo continuavo a sentirmi un’estranea, una perfetta sconosciuta. La nuova casa non mi aveva accolta.

Le perdite d’acqua erano venute fuori dopo sole tre settimane dal mio insediamento. Tubature perennemente otturate a cui erano seguiti gli insetti annidati nel mobilio in muratura e quel silenzio innaturale che mi inghiottiva, tagliandomi fuori dal resto del mondo. Infine erano arrivati i bisbigli, gli scricchiolii, gli spostamenti d’aria e le stranezze dei rubinetti del bagno, che spesso scaricavano nel cuore della notte. Oltretutto, da quando avevo messo piede in quella casa, erano cominciate le ansie mattutine, che mi scuotevano a letto come un fantoccio nelle mani di un bambino cattivo.

Per il momento non puoi andartene, mi ripetevo ogni volta che il desiderio di scappare mi si affacciava alla mente. Hai dato fondo a tutto, ti sei indebitata per fittare questo cesso di casa e adesso ci resti. Non sei abituata a vivere da sola, tutto qui. Datti tempo. Devi darti tempo.

Probabilmente tutto quello che accadeva era frutto della mia immaginazione. Ero tesa, ero sempre da sola, ero depressa. Dopo la separazione, per la quale avevo dovuto lottare, ero diventata sottopeso, ero sempre stanca e non facevo altro che piangere e camminare. Forse stavo impazzendo. A ogni modo non avevo nessuno con cui parlarne. Avevo perso mia madre quando ero ancora adolescente e mio padre non lo avevo mai conosciuto. Agli occhi degli amici stavo semplicemente affrontando male la rottura con l’uomo che avevo amato fino allo sfinimento e non avevo denaro a sufficienza per pagarmi una terapia psicologica adeguata.

Ma la verità io la conoscevo bene, ed era che la nuova casa non mi aveva accolta. La nuova casa non voleva essere la mia casa. La nuova casa era la vecchia casa di qualcun altro.

Disgustata, feci anima e coraggio e raccolsi con un fazzoletto l’insetto che avevo schiacciato, lo gettai via, chiusi la busta e diedi un’occhiata intorno per assicurarmi che tutto fosse a posto: finestre chiuse, balcone chiuso, valvola del gas chiusa e porta del bagno socchiusa. Come al solito. Quella me la scordavo sempre così.

Serrai le labbra e lasciai cadere la busta della spazzatura sul parquet sconnesso. Mi attanagliò lo stomaco la stessa angoscia che provavo ogni sera quando mi mettevo al letto e tiravo le coperte fin sopra il naso, stando bene attenta a fissare il soffitto, solamente il soffitto, fino all’arrivo del giorno. Mi avvicinai alla porta e, invece di chiuderla, entrai nel piccolo bagno cieco dell’appartamento al quinto piano. Mi accolsero il brutto lavabo squadrato e l’enorme specchio ovale, antico, con un orribile motivo floreale nell’angolo in alto a destra. Quello specchio lo detestavo e ripetevo sempre a me stessa che avrei dovuto decidermi a sostituirlo alla svelta, frattanto lui se ne restava lì mentre la vita mi scivolava via dalle mani.

Non accesi la luce. Rimasi impalata a fissare la mia immagine riflessa e provai veramente molta pena per come mi ero ridotta. Il volto magro, i capelli che continuavano a cadere e quelle occhiaie che nessun fondotinta riusciva a coprire. Guardavo la mia figura avvolta nella penombra e intanto piangevo. Non mi accorsi di nulla fino a quando non mi fu chiaro, in modo agghiacciante, che la donna che vedevo riflessa nello specchio non ero più io.

I miei capelli rossi e ricci erano stati sostituiti da una lunga treccia nera della quale non potevo vedere la fine; gli occhi erano troppo grandi e la bocca troppo larga. Continuavo a fissare quella donna ed ero come paralizzata, incapace di respirare fino a quando l’altra nello specchio non cominciò a muoversi.

Senza mai staccare i suoi enormi occhi dai miei, grave nella sua serietà, nella sua immensa stanchezza, la donna cercò con le mani la sua treccia e prese a tirarla su, una corda nera e lucida che, con una rapidità sovrumana, prese ad avvolgersi intorno al collo. Continuando a fissarmi, la donna nello specchio iniziò a strangolarsi.

“Vuoi morire?” disse. Le sue labbra non si mossero. “Vuoi? È ora…”

Urlai. Urlai e urlai, con quanto fiato avevo in corpo. E singhiozzavo anche, mentre la donna nello specchio soffocava e la sua pelle diventava bluastra, mentre gli occhi le schizzavano fuori dalle orbite e la sua voce morta mi ripeteva in continuazione che era giunto il momento di raggiungerla laggiù, nel buio fitto fitto.

Urlavo, e intanto mi rendevo conto che avevo assistito a quella scena ogni santo giorno da quando avevo messo piede in quella casa mostruosa. Ogni mattina, quando mi alzavo e l’unico pensiero era quello di allontanarmi, ogni sera, quando rientravo e cercavo di struccarmi con lo sguardo basso, in fretta, prima di incrociare i suoi occhi. Ma, lì dentro, i suoi occhi erano dappertutto.

Lei mi aveva rifiutata e io avevo fatto altrettanto. Avevo finto di non vederla, di non sentire il suo richiamo, avevo chiuso gli occhi ed ero andata aventi perché non avevo abbastanza soldi per scappare dalla sua casa, perché di tornare indietro proprio non se ne parlava, tuttavia, lentamente, lei mi stava ammazzando comunque. La profonda depressione nella quale ero sprofondata non era la mia.

Continuai a urlare, senza staccarmi da quello specchio infernale, fino a quando non piombarono in casa il portiere e la ragazza polacca che occupava l’appartamento di fronte al mio.

«Signora, cosa succede?» gridava il portiere intanto che mi scuoteva. «Signora bella, è entrato qualcuno? Le hanno fatto qualcosa? Per amor del cielo…»

Quando riuscii a staccare gli occhi dallo specchio dell’altra e sentii il contatto con il corpo vivo del portiere terrorizzato, d’istinto mi aggrappai a lui. Il povero vecchio, bianco come un cencio, mi abbracciò a sua volta e poi mi prese il viso fra le grosse mani paterne. «Cosa è successo?»

Guardai a lungo sia lui, sia la ragazza polacca, che senza dire nulla mi si era avvicinata e mi accarezzava la schiena con fare quasi ossessivo, poi scossi la testa. «Me ne devo andare.» Dissi soltanto.

Quando fui abbastanza lontana da lì, in quello stesso giorno, pregai due giovanotti di andare all’appartamento a riempire per me un paio di scatole con le cose di cui avevo assolutamente bisogno, ma ordinai loro di chiudere la porta del bagno e lasciare bene aperta quella dell’ingresso. Così fecero e non accadde nulla.

Fu durante la notte che la casa implose. Intorno alle due del mattino le tubature del bagno e della cucina scoppiarono. Le tessere del parquet saltarono via e il solaio della cucina crollò. La camera da letto fu sommersa dall’acqua.

Dopo alcune settimane, il portiere mi telefonò e si offrì di raggiungermi dall’altra parte della città per recapitarmi la posta. Fu allora che seppi che dell’appartamento che avevo abbandonato era rimasto in piedi solamente il bagno.

«E lo specchio» aggiunse, senza nascondere un brivido. «Intatto.»