di Melina Franco

 

Non posso alzarmi. Pensai.

Ero sepolta sotto quintali di terra, nell’oscurità, nel silenzio.

Non ce la posso fare. Tremavo. Avevo freddo.

La terra era gelida e io ero morta.

O forse no. Se fossi riuscita a tirare fuori la testa e a guardarmi intorno mi sarei accorta di non essere finita a dar da mangiare ai topi, ma che ero sotto le coperte, nel mio letto, affogata in me stessa.

Impiegai diversi minuti per riemergere dal sonno, ma quando finalmente mi apprestai a mettere il naso fuori dalle lenzuola, vidi che non era buio. Ricordai che era gennaio, era mattina e constatai che c’era addirittura il sole. Eppure l’odore selvatico della pioggia mi riempiva le narici e il sapore ferruginoso del fango mi nauseava.

Trattenni un conato di vomito e guardai l’orologio: ero ancora in tempo per fare una passeggiata. Gli impegni li avevo accantonati, dimenticati, cancellati: avevo rifiutato il posto che avevo vinto alla facoltà più prestigiosa della mia città, avevo lasciato il lavoro e le amicizie erano un ricordo confuso, che forse nemmeno mi apparteneva. Quando avevo scoperto di aver vinto la borsa di studio e quel posto tanto agognato, la cosa mi era apparsa di scarso valore, e allora mi ero tirata indietro. Di scarso valore, priva di significato, proprio come me. La considerazione che avevo della mia persona dovevo essermela scordata da qualche parte, sul fondo di una tazza di caffè, assieme alle mie aspirazioni, ai sogni, ai sorrisi.

Sospirai e pregai che il sapore della terra smettesse di stringermi la gola. Quel sogno era diventato una persecuzione, e a ogni risveglio avevo la terribile sensazione che una parte di me fosse davvero rimasta sepolta nel pantano, giù nella terra fredda e scura.

Ogni volta un pezzetto di più.

Mi tirai su controvoglia e guardai verso lo specchio appeso alla parete proprio di fronte al letto. Incrociai il mio riflesso e le lacrime mi rigarono le guance. Provavo molta pena per lei, per quella nello specchio, che si portava dentro un male che la stava divorando rapidamente.

Feci per asciugarmi gli occhi e rimasi colpita da quanto fossero diventate scheletriche le mie mani. In poco tempo mi ero ridotta a uno scricciolo fragile e confuso, l’ombra della ragazza sorridente che ero stata in quella che ormai mi appariva un’altra vita.

«Perché mi sta succedendo tutto questo?» mormorai, ricambiando lo sguardo spaurito della ragazza nello specchio.

Non avrei dovuto lasciare il lavoro. Mi dissi, mordicchiandomi le labbra. In queste condizioni non sarei riuscita a portare avanti l’università, ma almeno il lavoro avrei potuto tenermelo. Sono frustrata perché non ho accettato il cambiamento, perché credo di aver fallito. Ma io quella borsa di studio e quel posto in facoltà non potevo accettarli. Erano troppo per me.

Scossi la testa. La ragazza nello specchio mi imitò: per quanto cercassi di propinarmi storie, io sapevo bene che stavo male già da prima, da prima dell’estate, da prima dello scorso Natale.

Mi sono liberata da un peso enorme, cercai di rassicurarmi. Avevo scelto quella facoltà solo per accontentare papà. Niente di irreparabile. E senza energie, avrei perso il lavoro in meno di due settimane, tanto valeva chiamarmene fuori con dignità.

Quelle che in realtà non avevo proprio digerito, quelle che dentro di me avevano scavato un pozzo nero, erano state le uniche parole che Dave aveva speso per me quando aveva saputo che mi ritiravo: “Sei una perdita di tempo.”

Lo aveva detto ad alta voce, davanti ai clienti del ristorantino che aveva preso in gestione, e poi aveva sorriso. Un sorriso ambiguo e consapevole del male che stava infliggendo, un sorriso che voleva dire “sto scherzando” e voleva dire anche “non scherzo più di tanto.”

«Sei una perdita di tempo» dissi alla stanza vuota, sentendo il pozzo risucchiarmi nel nulla.

Quella frase buttata lì davanti a tutti era stata peggio di ogni altra cosa, peggio della scarsa stima che aveva di me, peggio delle volte che di fronte a un mio successo aveva risposto con un cenno del capo, peggio della raffica di “stupida” che da qualche mese mi riservava ogni volta che intraprendevamo un qualsiasi discorso.

Ma lui mi vuole bene. Pensai. Lui mi vuole bene. O almeno era quello che mi ostinavo a voler credere, aggrappandomi ai momenti di tenerezza che negli ultimi anni ci eravamo scambiati. È fatto così, e poi è stressato dal nuovo lavoro, gestire un locale non è facile…

Intanto, io cercavo di uscire fuori dalle tenebre e lui mi ricacciava dentro; io riscoprivo le paure che da bambina mi avevano tolto il sonno, e lui non aveva che indifferenza e sorrisi distratti da offrirmi, monotonia e silenzi con i quali combattere il mostro che cresceva dietro di me. Ma guai a parlarne. Guai anche solamente a pensarci.

Se solo questa nausea mi lasciasse in pace, sono certa che le cose funzionerebbero a dovere. Lui ha ragione, sono una stupida, e questa storia è tutta colpa mia. Sono una malata immaginaria. Ecco che cosa sono. Mi ammalo per non assumermi colpe, per non guardare in faccia al fatto che magari non sono tagliata per fare certe cose e che probabilmente sono nata senza spirito di adattamento. È come dice lui…

Poi, come un uragano, sentii arrivare il panico che mi avrebbe lasciata lì a tremare senza soluzione per il resto della mattinata.

 

Perché ci si perde a poco a poco.

E io mi sono smarrita vestendomi di tutto quello che non possedevo, fabbricando speranze quando le certezze vacillavano, credendo che presto tutto sarebbe andato a posto, che la vita avrebbe acceso per me il suo sorriso più radioso. E invece è stato il mio sorriso a spegnersi.

D’un tratto, mi si è srotolato di fronte un sentiero oscuro e io l’ho imboccato senza fiatare, senza farmi domande. Non me ne sono neanche accorta, ma ho cominciato a camminare e mi sono persa, e la mia vita è diventata priva di significato. Il mio senso di essere è svanito e nel petto mi si è aperta una voragine che vomita qualcosa di viscido e nero, che mi avvelena l’anima. La paura mi ha invasa.

Non ho più voglia di nulla, non ho spazio per nulla; il cibo, poi, è diventato tabù. Tutto sembra disgustoso, impensabile da mandare giù, impossibile da digerire.

È rimasta solamente la paura, assieme a qualcosa che rende lo stomaco un macigno e la testa confusa. E poi c’è l’odore di terra.

Mentre tutto crolla e io vado avanti sentendomi sempre più involucro e sempre meno persona, tu cammini al mio fianco e nemmeno mi vedi. Ti parlo, ma tu sei distante, non ascolti. E io mi perdo, Io, a poco a poco, svanisco.

 

Un suono acuto e insistente mi strappò allo stato catatonico nel quale ero precipitata. Sbattei le palpebre e afferrai l’aria a pieni polmoni, come se avessi tirato fuori la testa da un catino pieno d’acqua… o da una fossa nel terreno. Deglutii e mi ci vollero parecchi secondi per riacquistare padronanza di me.

Il suono si ripeté ancora, e allora mi accorsi che Pat aveva provato a chiamarmi al cellulare per una mezza dozzina di volte, e che c’erano tre messaggi da leggere. L’insistenza di mia sorella mi strappò un sorriso e pensai che mi toccava richiamarla subito, se non volevo ritrovarmela in camera, con il fiatone, per accertarsi che fossi ancora viva.

Sono depressa, ma non ho intenzione di suicidarmi. Pensai, accorgendomi che me la stavo raccontando grossa.  Certo che smettere di mangiare non è forse un lasciarsi morire lentamente? Perché questa punizione?

Afferrai il cellulare e feci scorrere le dita sul display, per sbloccarlo. Erano le 13.25 e presto la mamma mi avrebbe chiamata per il pranzo e io avrei risposto che avrei mangiato più tardi, o che non avrei mangiato affatto.

Sotto data e ora, risplendeva di mille colori la foto mia e di Dave, abbracciati su una panchina qualunque, in un posto qualunque, in un giorno qualunque. Osservai il mio viso scarno, le occhiaie, i capelli scompigliai, gli occhi infelici, e poi passai a lui che sorrideva, anche se il suo sguardo…

Era semplicemente distante? I miei occhi erano spenti, ma i suoi erano consapevoli, scaltri. I miei occhi erano morti e pieni di terra…

Ma dico, ti sei accorto di come mi sono ridotta? Diavolo, mi vedi? Da quand’è che non ascolti una sola parola di quello che dico?

Terrorizzata dalla piega che stavano prendendo i miei pensieri, sfiorai gli sms da leggere e mi si aprì la schermata delle conversazioni.

“Buongiorno Annie, come stai oggi? Sono ai giardinetti con Milly. La piccola ha bisogno di stare al sole. Le fa bene e farebbe bene anche a te. Ci raggiungi?” Poi altri messaggi. Pat era una donna insistente.

“Stiamo tornando a casa.” Scriveva. “Non mi rispondi e sono preoccupata. Saperti così distrutta mi spezza il cuore. Stammi a sentire, Annie, penso che nell’ultimo periodo tu stia ingoiando troppi rospi. So che non vuoi ascoltare, so che ti fa male accettare, ma ci sono atteggiamenti che non tolleri e che alla lunga ti stanno logorando. Non so se mi spiego… sei certa di avermi davvero raccontato ogni cosa?”

Si riferiva al dialogo inesistente che avevo con il mio ragazzo, al suo continuo zittirmi e sminuirmi, a quel senso di inadeguatezza, di allarme, di sofferenza che avvertivo quando ero con lui e che io stessa ricacciavo in fondo allo stomaco perché ero certa che Dave mi amasse e che ero io a comportarmi come una ragazzina sciocca.

Nell’ultimo sms, Pat riportava una citazione: “L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà, se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Queste dovrebbero essere parole di Calvino. Ho subito pensato a te. Sii felice, Annie. Butta fuori il lercio che hai dentro e ricomincia a vivere.”

Stavo piangendo e neanche me n’ero accorta. Rilessi il messaggio molte volte, con il cuore in tumulto, gli occhi dilatati, le labbra strette fra i denti.

Singhiozzai per qualche minuto ancora, tremando di disperazione e di collera.

Butta fuori il lercio che hai dentro e ricomincia a vivere. Facile a dirsi. Sono soltanto una ragazza insignificante… eppure stavo aprendo gli occhi. Improvvisamente vedevo gli ultimi anni della mia vita disfarsi a brandelli e sebbene il dolore apparisse inaccettabile, per la prima volta sentivo anche che da qualche parte, dentro di me, stava sorgendo il sole. Non era altro che un puntino luccicante, veemente, in un mare di melma e menzogne, ma era lì e non lo avrei ignorato.

Deglutii saliva amara, mi asciugai le lacrime e mi alzai dal letto. «Ho lo stomaco gonfio di una vita che non mi appartiene.» dissi al riflesso nello specchio. «Ma io all’inferno non ci voglio più stare.»

 

La nuova alba squarcia le tenebre e l’orizzonte si illumina di vita nuova. Il giorno giunge a rilento, ma la luce è già qua e mi invade, mi scompone e mi fa sua.

 

Eravamo in macchina già da un pezzo quando Dave si decise a dirmi dove fossimo diretti. Il vecchio belvedere si trovava in collina, in una zona dismessa, dopo l’area residenziale e il grande parco del poggio, chiuso per manutenzione dallo scorso inverno. Quando parcheggiammo, la nostra doveva essere l’unica auto nel raggio di chilometri.

Fuori era buio ed era scesa la nebbia.

Dave spense il motore e mi rivolse la parola col tono indispettito che lo caratterizzava quando era a disagio. Dopo il primo lampo di consapevolezza, avevo sistematicamente rifiutato di incontrarlo per settimane, cercando di non lasciarmi confondere dai sentimenti e dalle sue parole, e quando finalmente avevo compreso come stavano davvero le cose, gli avevo telefonato e vomitato addosso rabbia, dolore, accuse, riflessioni, sentimenti confusi e tutta la mia paura. Alla fine, dopo le sue implorazioni, avevo ceduto e deciso di incontrarlo, perché un rapporto non si troncava a quel modo, perché ero abituata ad ascoltare e a dare sempre una possibilità, anche fosse solo per spiegare.

«Cos’hai in quella testa?» mi chiese torvo, guardando il buio davanti a noi, che neanche i fendinebbia riuscivano a scalfire.

Sebbene qualche ora prima l’avessi sentito piangere al telefono, Dave mi sembrava tutt’altro che dispiaciuto. Arrabbiato forse, ma per niente sofferente.

Dal mio canto, io ero pronta a farmi valere, a urlare e difendere la mia persona annullata da anni di colpi inflitti alla mia dignità e alla mia autostima. Ero lì per ascoltare, ma anche per buttare fuori tutto quello che mi aveva corroso l’anima.

«Sono stanca, Dave» gli dissi, fissandolo. «Ho dato fondo a tutte le mie energie, ho cercato di piacerti in ogni modo. Mi sono sforzata e sforzata ogni santo giorno per dimostrarti che valgo. Ho vinto una borsa di studio e non mi hai detto una parola, ho cambiato taglio di capelli e tu hai sbuffato, facendomi sentire ridicola. Ho cominciato a lavorare e tu hai fatto silenzio, ho lasciato il lavoro e lo stesso hai fatto silenzio. Ho rifiutato il posto in facoltà e tu, invece di spronarmi, mi hai detto che ero una perdita di tempo. Ma insomma, Dave…»

«Tutte sciocchezze» mi zittì. «Hai solo voglia di discutere, di sfogare le tue frustrazioni. Non ti ho fatto proprio niente.»

Al solito. Con Dave non era possibile ragionare; con lui si girava intorno a ogni discorso senza mai toccarne il senso. Provare a discutere con lui mi lasciava ogni volta sfinita, nauseata e sconfitta. Era come prendere a pugni un muro di gomma. Da quanto tempo andava avanti in quel modo? Di cosa mi ero innamorata tanto tempo fa? Chi era il ragazzo che avevo di fronte?

«Non capisci. Non mi ascolti nemmeno. Anzi, mi sono accorta che spesso sono costretta a ripeterti una cosa anche tre volte perché non mi rispondi quando ti parlo, e dopo mi accusi di essere pesante e ripetitiva.

«Perché lo sei.»

«Sei esasperante, Dave. Mi hai prosciugata» mormorai, sentendo le lacrime pizzicarmi gli occhi. «Sai cosa ti dico? Che non vale più neanche la pena parlarne. Ho smesso di mangiare e tu probabilmente non te ne sei neanche accorto o peggio, non te ne frega niente. Ma io ho capito come stanno le cose con te e voglio tirarmene fuori.»

«È la tua personalità a essere snervante» replicò lui, imperturbabile. Era arrabbiato, eppure quella sera riusciva a mantenere una calma sconcertante. «Sei una ragazza problematica, Annie, pesi come una montagna e io sono costretto a trascinarti per tenerti al passo con me e con il resto del mondo. Non sei in grado di camminare sulle tue gambe. Sei infantile. Io lavoro anche venti ore al giorno e tu non riesci a gestire la tua stupida giornata e le tue emozioni sempre eccessive.»

Sentii le lacrime rotolarmi lungo le guance e scossi la testa. «Mi dispiace, ma questa volta non ci riesci. Non mi inganni. Non sono come tu mi descrivi e non sono costretta a bere le tue menzogne.»

Cominciai a singhiozzare e mi odiai per quell’ennesima manifestazione di debolezza, di fronte a lui che della mia debolezza si nutriva. Aprii il vano contenitore del cruscotto della sua auto e mentre rovistavo alla ricerca dei fazzoletti, qualcosa di bianco e appiccicoso attirò la mia attenzione.

Guanti in lattice. Sentii il fiato morirmi in gola. Richiusi il vano e mi asciugai gli occhi con le mani.

Adesso Dave mi stava guardando.

«Che cos’erano quelli?» gli domandai, sbattendo contro i suoi occhi, che erano freddi e duri.

«Sono per il mio socio» disse con voce atona, alzando le spalle. «Me li ha chiesti e glieli ho comprati.»

Mentiva.

Avvertii la paura insinuarsi in ogni fibra del mio essere e mi sentii ridicola. Sto esagerando, dissi a me stessa. Devo restare calma. È sempre Dave.

Poteva anche avermi fatto pressione, poteva avermi sminuita, punita con offese e silenzi immotivati, ma Dave non era un ragazzo pericoloso e quelli erano solo guanti.

E noi siamo soli al belvedere, sperduti in collina, al buio, completamente isolati.

«Sto passando un momento difficile» mormorai, continuando a guardarmi intorno alla ricerca di chissà che cosa, pregando che non se ne accorgesse.

«Sei insopportabile» mi disse. «Non fai che lamentarti. Non sai affrontare niente, tremi come un animale impaurito. Quand’è che ti deciderai a crescere? Oggi ti sei autoconvinta che sono io la causa delle tue crisi di panico. Sei infantile, Annie…»

Continuò a inveire contro di me, in tono sempre più polemico, ma io non lo ascoltavo più. Mentre parlava, avevo acceso la lucina interna dell’auto e scorto un luccichio nello specchietto del passeggero. Sul sedile posteriore doveva esserci qualcosa di metallico, qualcosa di grosso…

«Mi stai ascoltando?» ringhiò, afferrandomi una spalla. «Vuoi lasciarmi? Vuoi che ci lasciamo? Dillo chiaramente! Non ci sto a prendermi colpe che non mi appartengono né a farmi prendere in giro da te…»

Una pala. Si è portato dietro una pala!  «Sono stata precipitosa» dissi, stentando a far uscire la voce. «Hai ragione tu.»

Una pala e dei guanti. Cosa ci deve fare con una pala e dei guanti?

Ero sconvolta. La voglia di discutere mi era passata e sentivo solo un gran bisogno di tornarmene a casa, il più possibile lontano da lui.

«Non voglio lasciarti» gli assicurai. «Hai ragione, davvero, sono una sciocca con una marea di problemi e devo imparare a risolvermeli da sola. Ma rimedierò. Migliorerò. Noi ci amiamo, giusto?»

Dave non rispose. Rimase a fissarmi assorto, e io ad ascoltare il battito impazzito del mio cuore.

Poi due fari, per un momento, ci accecarono.

«Annie siete voi? Ragazzi…»

La voce di mia sorella Pat, che il Signore la benedica, riecheggiò ovunque, strappandomi a quell’incubo.

Dave mi stava ancora stritolando una spalla. Mi divincolai dalla stretta di quell’estraneo, che fino a un giorno prima avevo creduto di amare, e sgattaiolai fuori dall’auto. Dave rimase immobile, impassibile.

Mi accolse una ventata di aria ghiacciata, che sapeva di ferro e di fango, che sapeva di fossa. Corsi da mia sorella e mi fiondai nella sua macchina.

«Vi ho seguiti. Mi dirai che non sono normale, ma ero molto pre…»

«Metti in moto» ansimai «Andiamocene da qui. Dave è fuori di testa.»

Pat sgranò gli occhi e quando vide Dave uscire all’auto e tirare fuori un’enorme badile dal bagagliaio, azionò la retromarcia e scappammo. Dave non ci inseguì.

I mesi successivi furono duri, ma mai quanto il tempo passato nella dissonanza in cui quella relazione tossica mi aveva fatta sprofondare. Dave provò più volte a contattarmi, si appostò sotto casa mia e fuori al mio nuovo posto di lavoro. Dopo la prima aggressione in pubblico, mentre ero seduta a un bar con delle amiche, lo denunciai. Da quel giorno non l’ho mai più rivisto, ma a volte ho la netta sensazione che qualcuno sia nascosto nell’ombra a osservarmi, e allora sento in gola il sapore della terra.

 

L’autrice

“Melina Franco è nata a Napoli nel 1988 e vive ancora nel centro storico della città partenopea.

È una giovane autrice di racconti di genere fantastico, horror e surreale.

Scrive occasionalmente per la rivista mensile “Verde Età” e ha pubblicato uno dei suoi racconti in un’antologia fantasy, a seguito della vittoria di un concorso indetto da Historica Edizioni.

Attualmente lavora come editor freelance ed è in procinto di pubblicare la sua prima raccolta di racconti