Di Christian Marra –
L’ombra degli archi si distingueva nitida anche senza la luce della luna. Molto più oscura della notte, si stendeva sulla terra bruna arrivando ben oltre il confine della vista. A nessuno, in città, sarebbe mai venuto in mente di recarsi sotto gli archi in piena notte. Tutti sapevano cosa succedeva lì, di notte, quando nessuno sguardo umano osava volgersi verso le loro antiche pietre. Coloro che avevano abbastanza coraggio da sfidare le dicerie, raccontavano di aver udito provenire da quelle pietre, anche se mai nitidamente, cose irripetibili, biascichi e sibili infernali.
La sfida al cielo
Alcuni dicevano che quella era solo la voce dei secoli che, si sa, le cose che li attraversano conservano, nel bene o nel male, come un’eco lontana. Affusolati come lunghi artigli, gli archi gridavano costantemente la loro sfida verso il cielo. Quelle voci non erano umane, e non lo erano mai state. Venivano dall’inferno. Quegli archi, così imponenti, sembravano davvero opera del demonio. E lo erano.
La leggenda degli archi
Gli archi dei diavoli. Era questa la prima storia che mi venne raccontata quando arrivai a Salerno. Era quello il tempo in cui la scienza e la magia si confondevano l’una con l’altra, ed un uomo di scienza poteva essere definito un mago perché, grazie ad artifici spesso lontani dall’umana comprensione, gli era concesso ciò che agli altri uomini era precluso. Ma quello che fece Barliario non poteva chiamarsi scienza. Salerno aveva resistito anche all’ultima invasione dei pirati saraceni, che s’alternavano a predoni e nemici d’ogni sorta; venuti per restare, tagliarono le vie che portavano l’acqua nel tentativo di prendere la città. Che resistette. Ma non sarebbe durata a lungo, senza più acqua.
Il patto col diavolo
Barliario promise ai salernitani, stremati, che ben presto avrebbero avuto il loro acquedotto. Così invocò il maligno, consapevole che il demonio esige un prezzo molto alto per i suoi servigi. Gli propose in cambio l’anima di suo figlio, convinto di poter ingannare persino il diavolo. Il diavolo, ascoltata la proposta di Barliario, accettò, convinto di poter ingannare il mago. Finì che l’opera fu compiuta, ed il prezzo fu pagato. Il mago terminò i suoi giorni in un convento, consumato dal rimorso.
In cerca d’ispirazione
Era quella materia buona per un romanzo, se non fosse che ne stavo già scrivendo uno. Avevo iniziato a scrivere in preda ad un furore creativo mai provato prima d’allora. Ma poi mi ero fermato d’improvviso. Così dovetti partire in cerca d’ispirazione, finendo per fermarmi a Salerno nel tentativo di dare un finale alla mia storia. Convinto com’ero che ogni storia dovesse avere necessariamente un inizio ed una fine. Un’errata convinzione, che ci porta a valutare ogni evento sotto la dimensione umana, considerandolo da un unico punto di vista: il tempo.
Volto di donna
La mia totale mancanza d’ispirazione non si era risolta neanche dopo essermi stabilito a Salerno. Anzi. Non appena misi piede dentro le antiche mura che tuttora la cingono, iniziai a percepire qualcosa di strano. Qualcosa che sembrava accadere solo nella mia testa. Passavo giorni senza dormire. Un volto di donna, dalla carnagione chiara ed i lunghi capelli ondulati che le scendevano fin sotto le spalle, mi osservava dal fondo dei miei occhi non appena li chiudevo. Mi toglieva il sonno, entrando fin nei sogni più remoti. Una donna di una bellezza antica. Si affacciava ogni notte alla mia mente, osservandomi senza dir nulla. L’unica cosa che sentivo era quel maledetto farfugliare infernale, come il suono ottuso del lamento di una moltitudine inquieta.
Una richiesta d’aiuto
Non potevo fare a meno di pensarci: quel viso, quelle voci, mi dilaniavano l’anima. Più passavano i giorni, più i lineamenti di quel volto di donna mi si presentavano precisi, chiari e limpidi. Il suo viso riluceva di un candore insospettabile, che non tradiva alcuna smorfia di dolore, sebbene io sapessi, nonostante sentissi, che soffriva, ed invocava il mio aiuto senza che altri, oltre me, potessero ricevere la sua richiesta disperata. Bramavo di lei anche un solo bacio. La sua sofferenza era la mia. Dovevo raggiungerla, ovunque fosse. Dovevo farla mia.
Il cocchiere
Non riuscivo a finire il mio romanzo. Quelle voci si facevano più forti ogni volta che provavo a scrivere. Si sovrapponevano come onde ai miei pensieri, dissolvendo ogni traccia sotto di loro; così insistenti che non riuscivo più nemmeno a desiderare che smettessero. L’unico sollievo mi veniva dal volto di lei, gli unici attimi di pace mi giungevano dal suo viso. Ma una sera le voci si fecero troppo intense, rischiavo d’impazzire, sembravano ormai le grida furenti di due eserciti in battaglia. Dovevo trovare quella donna. Uscii in strada e chiamai una carrozza. Quando il cocchiere mi chiese dove volessi andare, risposi solo: “Ovunque non si oda voce umana”. La carrozza andò per un po’, dopodiché il cocchiere intimò al cavallo di fermarsi. Quando fui sul punto di pagare, l’uomo mi fece cenno di no col capo: “La prossima volta che ci vedremo, saremo pari”.
Alla ricerca del silenzio
Mi guardai intorno, senza sapere bene dove andare. Fu allora che vidi l’ombra bruna degli archi tracciare in terra quella linea infinita. La seguii, e più andavo avanti, più le voci, quelle maledette voci infernali, si facevano grida nella mia testa. Poi si scatenò davanti ai miei occhi, senza avvisaglie, una violenta pioggia, e dovetti infilarmi negli stretti vicoli della Salerno vecchia, costruiti ai tempi dei saraceni affinché due uomini in armi non vi potessero passare affiancati. Mi riparai sotto il portico di un’antica chiesa. Appena entrato, mi resi conto che il silenzio la riempiva completamente: vuota del resto, la chiesa stessa emanava quiete e pace, con una forza tale che conduceva all’oblio qualsiasi cosa che non fosse profondo silenzio.
Il risveglio dal sonno
Non saprei dire quanto a lungo dormii, sui banchi abbandonati di quella chiesa. Ricordo solo che a svegliarmi fu lei. La donna che vedevo nei miei sogni. La soluzione dei miei tormenti.
Mi sfiorò il viso con le dita: “Ti stavo aspettando”, disse senza quasi bisogno di muovere le labbra.
Si diresse verso l’altare ed io non potei fare a meno di seguirla.
Era davvero una visione, adesso più di prima, ora che la sua pelle era così viva ed il suo volto così vicino. Dai grossi finestroni non filtrava un solo filo di luce, ma pareva fosse attraversata dai raggi della luna per quanto mi appariva splendente.
Potevo anche sentire la tempesta infuriare oltre la chiesa: una notte terribile, una notte che capita ogni mille anni. La notte in cui furono costruiti gli archi dei diavoli.
Lo scambio
Nuda, distesa sul gelido marmo dell’altare, mi trasse a sé senza che potessi, senza che nemmeno volessi, opporre alcuna resistenza. La guardavo, adagiata sotto di me, e pensai che era la donna che avevo sempre desiderato. Iniziai ad ardere di un’impazienza che non mi era mai appartenuta, un solo attimo ancora senza quella donna e sentivo che sarei morto. Dovevo prenderla lì, sull’altare. Mi chinai sopra di lei, e fu allora che lo vidi. Preceduto da un intenso odore che m’invase le narici e annebbiò i sensi, un odore di cimici e fumo nero. Attendeva in piedi, di fronte all’altare dove una tempo stava il crocefisso: il cocchiere, colui che mi aveva condotto fin lì.
Dal suo sguardo ora trapelava l’inferno. Lo guardai negli occhi e non ebbi alcun dubbio: il demonio, quell’uomo era il demonio in persona.
“Il debito sarà pagato stanotte” – disse – “il figlio di Barliario mi appartiene”.
Incroci di vite
L’errata convinzione che ci porta a valutare ogni evento sotto la dimensione umana, considerandolo da un unico punto di vista: il tempo.
Quando fu quasi la fine, la rividi, rividi tutta la mia vita in un solo istante, che sembrò durare il tempo stesso che ci era voluto a viverla; e non solo quella, ma anche tutte le altre, che non si erano sommate dentro di me, bensì incrociate, le une con le altre.
Vidi il portale del convento di San Benedetto, con un enorme battente col quale mio padre colpì tre volte il pesante portone, e poi altre tre volte e poi ancora altre tre, fin quando non venne ad aprire un monaco che guardò mio padre come si guarda qualcosa di cui non si comprende a pieno il senso, e poi mio padre disse: “Proteggetelo dal male, e fate che non abbandoni mai questo luogo santo”.
Mi lasciò ai monaci e sparì.
Il doppio inganno
Il mago invocò il demonio, convinto di poterlo ingannare. E lo fece. Costruiti gli archi, mille anni prima del giorno in cui stavo per morire, mi lasciò dove il demonio non poteva venire a prendermi. Il convento di San Benedetto.
Ma infinite vite erano passate da allora, ed il demonio stava per esigere il suo prezzo. Avrei voluto fuggire via di lì, ma la donna continuava a tenermi stretto, indissolubilmente. Mi stavo perdendo dentro di lei, per sempre, affondavo inesorabilmente tra i suoi seni e le sue cosce, senza avere la forza di andare.
“Presto sarai mio, il destino del figlio del mago è segnato”
Mi stava prendendo l’anima, lentamente, trascinandomi in un’inesorabile discesa verso gli inferi sotto gli occhi del demonio.
Poi sentii una mano strapparmi al mio destino. La mano che dà e toglie la vita: mi prese alle spalle, mi strinse forte la testa e sentii solo: “Torna a casa, figlio mio”. Poi una lama mi passò sulla gola e mi sembrò di essere morto, ancora, e non so più quante volte già sentivo di essere morto prima di allora, e sentii il sangue caldo avvolgermi e circondarmi, ed io annegai dentro quel sangue, finché non mi svegliai tra le lenzuola fradice del mio stesso sudore, balzai fuori dal letto aprii le finestre e mi resi conto che ero ancora io e che fuori era mattino e che in fondo al panorama, dalla mia finestra, si potevano scorgere gli archi dei diavoli in lontananza.
Guardai i miei quaderni, ed il romanzo che non riuscivo a finire. Lanciai un ultimo sguardo agli archi dei diavoli e mi sedetti allo scrittoio. Adesso avevo una nuova storia da scrivere.
Questo racconto è tratto dalla storia del mago Barliario, una leggenda di tradizione popolare molto famosa a Salerno, secondo la quale il mago – figura al limite tra realtà e fantasia – avrebbe stretto un patto col diavolo affinché lo aiutasse nella costruzione dell’acquedotto cittadino, un’opera imponente per il contesto e la tecnologia dell’epoca.
Da Wikipedia: