Di Pasquale D’Aiuto.
Se non mi paghi, non è lavoro. Lo afferma a chiare lettere l’art. 36 della Costituzione – oltre al vocabolario. Davvero? Seguitemi.
Ho redatto un parere ad una persona a me molto cara. Ci ho messo poco perché trattavasi di materia congeniale. Ha insistito per pagare; ho dovuto convincerlo che mai avrei accettato (tanto, prima o poi lo sfrutto con qualche dritta sul suo settore!).
Mi ha risposto, tra l’altro: “Letto tutto e tante grazie. Ora mi devi fare la fattura, non quella delle streghe da strapazzo, ma quella dei dindi. Il mio codice fiscale [omissis: Paese estero serio, NDR] è [omissis]. Grazie caro, sapevo di poter contare sulla tua professionalità”.
E sì, non vive in Italia. Quindi, già è perbene ma campa e lavora pure in una Nazione dove le cose sono logiche: lavoro = dindi, per dirla alla lui. Possiede quel senso civico che, da noi, non soltanto è latitante ma viene grottescamente scoraggiato dalle Leggi. Perché nel nostro fottuto Paese (e perdonatemi se ho usato la maiuscola, per indicare l’Italia, dopo la parolaccia), pagare è una mera eventualità. Specie per gli avvocati.
Esempio: vinco una causa. Migliaia e migliaia di euro tra spese, competenze legali e sorte per il cliente, mica noccioline. Evviva! Ora, vorrei soddisfarmi da chi ha perso, perché il giudice l’ha condannato e perché vorrei pagare la rata dell’auto o il salumiere. Ma, sorpresa (e mica tanto): la mia controparte, che pure ha ben pensato di incardinare un giudizio onerosissimo poi giudicato infondato, non ha dovuto prestare nessuna cauzione o depositare somme per il malaugurato caso di sua sconfitta: la Legge non lo prevede.
E non ha uno stipendio, non possiede automobili di qualche valore, non è proprietario di case (o, se sì, sono caverne in comproprietà) o di azioni o conti-correnti et similia e vive in un’abitazione altrui che – potete starne certi – sarà rinvenuta da chi di dovere chiusa o priva di beni utilmente aggredibili, se oserò tentare di porre all’incanto i suoi mobili. Ah: ovviamente, quando raggiunto sempre da chi di dovere, il debitore non avrà indosso danaro, orologi, gioielli o comunque beni di qualche valore.
La mia controparte ha scherzato, non rischia nulla. E magari fa anche appello.
Direte voi: chiedi il tuo compenso al tuo cliente. Certo, si può. Ma vi sembra giusto? A me, no. A me sembrerebbe molto più logico responsabilizzare chi instaura un giudizio, onerandolo ad una garanzia: magari, disponendo che debba versare, prima della causa, almeno una parte del presumibile dovuto in caso di sua soccombenza, cosicchè quell’importo possa andare automaticamente e rapidamente al vincitore della vertenza, se il giudice condanna alle spese. Sennò, che paghi lo Stato, ma presto ed a tutti i professionisti in giudizio! O la nostra Giustizia si preoccupa solo di incamerare i contributi dovuti e, dopo, chi si è visto, si è visto? Domanda retorica.
Perché chi fa causa tanto per fare, da noi, resta impunito. O chi semina debiti: penso a quelle s.r.l. inattive e prive di beni, i cui soci, nella pratica – spesso – sono esenti da fastidi con una semplice scrollata di spalle, pur dopo aver accumulato passivo. Senza pensieri. E con questo andazzo, perché mai uno dovrebbe avvertire la necessità di pagare il proprio avvocato o quello altrui in caso di sconfitta? Dirò di più: c’è gente (e non poca) che organizza la propria esistenza per essere intangibile verso l’agenzia delle entrate come verso qualsiasi creditore. Gente fredda, furba. Che non è titolare di nulla.
E poi, se qualcosa da recuperare c’è (e sempre anche per il cliente, intendiamoci), tu avvocato – truce, insensibile, gelido, che ritieni di dover guadagnare per il tuo lavoro! – hai innanzi a te una strada impervia. Se si tratta di enti pubblici, devi attendere un irragionevole termine di 120 giorni dalla notifica del titolo esecutivo (tanto per intenderci, la sentenza) per procedere. Soltanto dopo puoi cominciare l’attività pre-esecutiva ed esecutiva.
Ma in generale, se promuovi un’esecuzione immobiliare, le spese necessarie da anticipare sono molto ingenti, e si uniscono all’attesa di anni ed anni ed alla fortissima alea di non cavare un ragno dal buco, perché sovente – per una ragione o l’altra – il bene non si vende. Quanto a quella mobiliare, beh… stendiamo un velo pietoso, meglio. Sopra, credo di aver reso l’idea.
E allora, cosa si fa? Pignoramento presso terzi, cioè debitori del tuo debitore (pensioni, canoni, stipendi, depositi, conti/correnti e così via, sebbene con limiti vari). Se c’è qualcosa da recuperare, ovvio (e se non si tratta dei nullatenenti di comodo di cui sopra). Ma dopo aver pagato l’obolo al Tribunale per sapere se puoi azzardarti ad avere informazioni sul tuo debitore presso le Entrate, in caso positivo dovrai versare altro obolo all’Agenzia e, quando pure quella ti risponderà, allora potrai finalmente notificare gli atti.
Però, siccome sei solo un famelico lupo cattivo se osi richiedere quanto spetta a te ed al tuo assistito, devi prima avvisare, con un precetto, il debitore – che facilmente, sebbene illecitamente, potrà chiudere i propri conti, nel frattempo – e poi non potrai nemmeno operare le necessarie notifiche degli atti in autonomia ma dovrai recarti fisicamente presso l’Ufficiale Giudiziario (e pure nella zona del debitore! Quindi, in qualunque parte d’Italia) con ulteriori spese e tanto tempo perso. Perché, giacché sei uno sporco e brutto avvocato, non puoi attestare che il titolo in base al quale agisci ed il precetto, che hai dovuto già notificare, siano conformi all’originale e, quindi, al vero. Te lo devono certificare.
E non continuo, ché già mi sono dilungato e ci sarebbe un’enciclopedia da scrivere, sul tema.
Quindi: il lavoro è quella cosa retribuita? Non per gli avvocati. Con buona pace della Costituzione. E pure del vocabolario.