Mutuando da J. L. Borges l’incipit di “Tlön, Uqbar, Orbis Tertius”, primo racconto di Finzioni: “Debbo la scoperta di Uqbar alla congiunzione di uno specchio e di un’enciclopedia”, io debbo un sovrappiù d’amore per la raccolta dell’autore argentino ai miei ex-studenti. Difatti é stato questo il testo che nel tempo più ha stimolato il loro entusiasmo e la loro curiositas. com’é naturale, erano tutti prevenuti: “Nooo! Ma Prof., un cervellotico spocchioso come lui!”. Al contrario, attraverso una paciosa lettura condivisa, non solo lo hanno divorato, e con gioia, ma hanno continuato a citarlo come fosse il loro Batman dalla penna d’oro. In Finzioni hanno assaporato alcune delle cose che il lettore di Borges più ama.
Ad esempio, la straordinaria immaginazione narrativa con cui accompagna continuamente, in un viaggio all’interno della conoscenza, il lettore. Difatti attraverso il simbolismo con lui Borges dialoga, in modo da fargli esplorare i sensi nascosti dietro quello che definiamo realtà. Quei miei giovani adulti hanno capito che l’erudizione di cui é accusato é solo uno strumento, quello che i critici definiscono: “Il modo migliore con cui si manifesta il suo umorismo”,
Eh sì, perché proprio attraverso un enciclopedismo buttato lì con nonchalance, come fosse l’innocuo passatempo di un eccentrico intellettuale, l’autore prospetta una realtà vertiginosa. In primis il suo aspetto perennemente mutevole, non componibile e pensabile come unica ed oggettiva. essa costantemente si ramifica e si moltiplica come ne “La biblioteca di Babele”: “La biblioteca é distribuzione interminabile di tutti i libri scritti in tutti gli idiomi di tomi e tomi di casuali accostamenti di lettere, infinite variazioni su uno stesso argomento. Una realtà costituita da libri eternamente infiniti […] l’universo, che altri chiama la biblioteca, si compone di un numero indefinito, e forse infinito, di gallerie esagonali … é un vortice di cunicoli, scale e strettoie, di confusione e meraviglia”.
Ne “La bibioteca di Babele”, come nel precedente Tlön, Borges introduce il concetto di infinito, in una sua visione di spazio e tempo ribaltati: a Tlön “Gli oggetti si duplicano e si cancellano e tendono a perdere i dettagli quando la gente li dimentichi”. inoltre, essi esistono grazie alla forza dell’immaginazione e solo se percepiti, perché in Tlön é il mondo delle idee che crea la realtà, o meglio le realtà. “Il mondo di Tlön non é un concorso di oggetti nello spazio, é una serie eterogenea di atti indipendenti”, mentre i Hronir sono copie di realtà, anzi copie di copie di copie, ma non abbiamo idea di chi le produca. Insomma il racconto, negazione di tutto quello in cui crediamo, sviluppa in forma di fiction concetti che appartengono alla storia umana sulla teoria della conoscenza e ci guida alla riflessione su problemi universali trattati da sempre, basti pensare alla riproposizione dei paradossi di Zenone.
In Tlön, Borges rielabora l’idealismo di Berkley, il quale lega l’esistenza alla percezione: “Un albero che cade in una foresta fa rumore? Esiste se non osservato?”. ugualmente ripropone la fenomenologia di Husserl, che privilegia la percezione psicologica. Tutto cio’ con un raffinato gioco da prestigiatore: la forma del racconto fantastico.
Ne “Il miracolo segreto” Hladìk é davanti al plotone d’esecuzione. Noi speriamo che intervenga qualcosa per salvarlo, magari dio stesso che il condannato invoca. Al contrario, interviene qualcosa di impalpabile che ci spiazza: “Un secondo lungo come un anno per terminare il dramma […] tra l’ordine e l’esecuzione dell’ordine trascorrerebbe un anno […] Hladìk minuzioso, immobile, segreto, ordì il suo labirinto invisibile […] nulla veniva a importunarlo, a distrarlo […] non gli rimaneva che un solo aggettivo. lo trovò […] la quadruplice scarica lo fulmino’ “
Il racconto ci pone davanti l’immagine che da sempre turba l’uomo: la coscienza del proprio intricato cammino attraverso un labirinto della vita, il quale é tale in spazi e tempi sovrapponibili, come nella quarta dimensione di Einstein che troviamo in Tlön: “Sono Edgard Allan Poe, sono Menenio Agrippa, sono nessuno”, in sintonia con quanto dice in “Elogio dell’eternità”: “Tutto é presente nel medesimo istante”.
Il potere di queste riflessioni é grande, e tornano in mente sia Calvino ne “I castelli dei destini incrociati” e ne “Le città invisibili”, che l’Ichinen Sanzen delle filosofie orientali (tremila mondi in un istante), ed “El Aleph”, che nel 1945 anticipa l’infinitesima massa primordiale precedente il big bang.
Allo stesso modo ne “Il giardino dei sentieri che si biforcano”, c’é un romanzo infinito in cui ad ogni biforcazione del destino ci si decide per ogni soluzione simultaneamente.
Ogni alternativa é effettiva, al punto che un personaggio può essere morto e continuare a vivere nello stesso tempo, perché non é possibile tenere distinto il divenire dall’eternità: “Prima di ritrovare questa lettera, m’ero chiesto in che modo un libro potesse essere infinito. non potei pensare che ad un volume ciclico, circolare: un volume la cui ultima pagina fosse identica alla prima, con la possibilità di continuare indefinitamente. mi rammentai anche della notte centrale delle “Mille e una notte”, dove la regina Shahrazad si mette a raccontare testualmente la storia delle “Mille e una notte”, a rischio di tornare un’altra volta alla notte in cui racconta, e così all’infinito. pensai anche a un’opera platonica, ereditaria, da trasmettersi di padre in figlio, e alla quale ogni nuovo individuo avrebbe aggiunto un capitolo, e magari corretto, con zelo pietoso, le pagine dei padri è […] quasi immediatamente compresi: le parole: ‘ai diversi futuri’ mi suggerirono l’immagine della biforcazione nel tempo, non nello spazio… a differenza di Newton e di Schopenauer, il suo antenato non credeva in un tempo uniforme, assoluto. credeva in infinite serie di tempo in una rete crescente e vertiginosa di tempi divergenti e paralleli […]: il tempo si biforca perpetuamente verso innumerevoli futuri […] ogni cosa ad ognuno accade precisamente ora, secoli e secoli e solo nel presente accadono i fatti. innumerevoli uomini sulla terra, e quello che realmente accade, accade a me.”
Il vero labirinto é un altro: quello delineato nelle ultime parole de “La morte e la bussola”, racconto straordinario per la sua precisione matematica nella logica infallibile di Lonröt: “Scharlach, nel suo labirinto ci sono tre linee di troppo. […] io so di un labirinto greco che é una linea unica, retta. in questa linea si sono perduti tanti filosofi che ben vi si potrà perdere un mero detective […] bene, per quest’altra volta […] le prometto questo labirinto invisibile, incessante, fatto d’una sola retta.” ecco le fattezze del vero labirinto. La linea retta é un’immagine di labirinto a cui mai pensiamo per la sua semplicità lineare, perciò non ci fa paura e vi ci camminiamo dentro tranquilli, senza il sospetto di non potere più uscirne.
D’impulso ci viene da pensare al labirinto privo di vie di fuga di questo nostro tempo: “Incantata dal suo rigore, l’umanità dimentica che si tratta di un rigore da scacchisti […] i lavori continuano […] ed il mondo sarà Tlön”. Dapprima invisibile, poi sempre più concreta ed invasiva, Tlön é una terra in cui esiste solo il fittizio, in cui é negata l’individualità umana, mera moltiplicazione di un unico essere.
I critici dicono che l’autore, quanto Camus nell’epidemia di peste, qui prefigura la distruzione di massa di stampo nazista. Noi, rileggendo ora Finzioni, non possiamo non pensare ad un involontario racconto profetico sul mondo al tempo della attuale pandemia e a ciò che ci si prospetta.
Al di là del fatto che il nostro inevitabile spaesamento, compagno dell’uomo in fasi di forti mutamenti, potrà finire in una pericolosa richiesta di decisionismo, nell’ottica del profitto globale sono hinc et nunc in fase di definizione dispositivi elettronici tramite cui attivare la percezione dei cinque sensi, mentre oculus di Mark Zuckerberg sta procedendo velocemente alla definizione di un dispositivo per interagire con gli altri. Attraverso la stessa struttura iper-materiale degli oggetti esistenti su Tlön, l’economia virtuale dei bitcoin e delle criptovalute, fa sì che ora si viaggi sempre più nell’immateriale, in un labirinto in cui anche noi, virtuali e ciechi (quindi privi di luce come le monadi di Leibnitz), potremmo essere intrappolati.
Se allo scenario desolante di Tlön Borges oppone il suo: “Io non me ne curo e continuo ad attendere alla traduzione dell’Urn Burial di Browne, noi possiamo rispondere che faremo di tutto per non cedere ad una economia che ad esempio propone massivamente la vendita on line. Che il più possibile terremo in vita i legami attraverso la materia, l’unica dotata del soffio vitale di mente/cuore di cui si servì Dio per animare Gaia, l’ammasso primordiale della sostanza. Infine, che saremo sempre in sintonia con le parole di Umberto Galimberti: “Ci stiamo arrendendo ad una comunicazione che non é guardarci in faccia, che non é più un io e te, ma un io e la tua rappresentazione. di conseguenza la socializzazione si é ridotta alla propria e altrui parvenza digitale. In questo contesto é necessario coltivare l’empatia, la grande macchina con cui ci si può relazionare , perché comunicando attraverso questa parte irrazionale giungiamo alla verità dell’altro.”
Antonella Micone