Il diario di un’anima: così mi pare di poter definire l’opera poetica di Natale Pace.

Un diario in versi che ripercorre mezzo secolo della vita di un calabrese sensibile che, con la mente scevra da ogni orpello, quasi per caso, è giunto alla poesia quando, appena sedicenne, gli toccò in sorte di vivere un frammento della sua esistenza a Melicuccà, un paesino a dodici chilometri da Palmi, dove gli abitanti, forse per le particolari virtù dell’acqua che vi sgorga, sono pazzi o poeti.

In quel borgo selvaggio, dove ha avuto la ventura di nascere e morire uno dei più grandi poeti del Novecento, Lorenzo Calogero, allora quasi completamente sconosciuto, Natale fece amicizia con un gruppo di coetanei che, innamorati dei versi del più grande e più pazzo dei melicucchesi, lo accolsero nell’associazione culturale da loro appena fondata con la pretesa di far conoscere i versi di colui che, allora, veniva definito il nuovo Rimbaud italiano.

Io ero il più giovane di quell’allegra brigata, forse la mascotte, ma ben ricordo le passeggiate e i discorsi di quegli anni che hanno determinato la nostra esistenza, che ci hanno avviato ad una vita di studio e di impegno nei diversi campi del sapere. Alcuni di noi, la maggior parte, andarono a studiare fuori della Calabria, altri vi restarono e Natale, in Calabria, cominciò a forgiare il suo carattere di poeta per volere del fato, se per fato si intende la necessità che non si conosce, che appare casuale e che pure invece guida il susseguirsi degli eventi secondo un ordine non modificabile.

I primi versi li scrisse sulle orme di Calogero, ma con ciò non intendo affermare che nella sua poesia vi siano intenzionali derivazioni da quella calogeriana. Si tratta soltanto di somiglianze non ricercate, di echi e riflessi che emergono spontanei e si inseriscono nel dettato poetico mescolandosi alle coinvolgenti immagini suggerite al poeta dalla quotidianità della vita: dal delicato amore per una donna, dalla miseria e dalla solitudine della Calabria, dal dolore dell’emigrazione e dalla voglia di tornare, espressi in un linguaggio fluido e solo raramente impreziosito da qualche ricercatezza linguistica.

Quella prodotta da Natale Pace è poesia lirica nel vero senso della parola: si ha l’impressione che i suoi versi siano il frutto di brevi pause che gli permettono di soffermarsi, scevro da ogni ragionamento, ad auscultare la voce della sua anima che gli suggerisce pensieri poetici sulla sua esistenza, sul mistero della vita e della morte. In essi il poeta esprime gioie e timori che nascono in chi vive nel presente l’incertezza del futuro e, proprio per la sua vasta capacità di analisi, brancola nel buio, ignaro della sua origine, ma alla ricerca continua della finalità del suo vivere.

Una poesia, quindi, che nasce fuori da ogni intenzione intellettualistica ed esprime con immediatezza le sensazioni che il poeta prova davanti al mistero che palpita in ogni aspetto della vita e che appare originale anche quando, a volte, si ha l’impressione che ritornino nei ricordi “ferite/ come riti segreti/ dei vecchi faccia di rame/ o certe maschere di terracotta/ dura al logorio dei tempi”.

Nelle prime due raccolte, La terra ed altre canzoni e Il seme sotto la neve, le uniche, mi pare, ad essere state pubblicate, ad una attenta lettura, ci si accorge che l’autore canta il dolore del nostro tempo con un’anima inconfondibile e propria: egli si tiene lontano da mode avvilenti, da artificiosità ermetiche e da giochi astratti; rimane fedele a se stesso ed è sempre spontaneo. La sua poesia, anche quando affronta temi abusati come l’emigrazione, non scivola mai nel banale, è chiara, oggettivamente emotiva, ricca di pathos: quando è costretto a vivere lontano dalla sua terra, non può non dare fiato alla “tromba che porta il pensiero alle scogliere lontane di ginestre odorose e ai ricordi nostalgici”, ma fiducioso scrive all’amata “passerà la canicola. Poi andremo per funghi”.

Ci si trova spesso davanti a versi che esprimono un profondo contrasto tra reale e ideale, ma Natale non è un romantico in ritardo, non è un decadente e non è un crepuscolare che si ripiega su se stesso, neppure quando crescono i giorni suoi “disperati”. Egli è un uomo che sente le grandi come le piccole cose, che soffre per l’ingiustizia, il cui atteggiamento di fronte alla realtà è caratterizzato da una sorta di tremore davanti al mistero dell’essere.

Le poesie scritte dopo gli anni ’80 del secolo scorso esprimono una maggiore maturità: anche se a volteritorna accesa immagine una chiesa di campagna”, il poeta sa che “non saremo più come prima”. Le raccolte inedite (1990, Margutta e La fine dell’inverno) sono un lungo canzoniere d’amore i cui versi sgorgano cristallini da un fine animo poetico che intravede “schegge di sole” che illuminano il monte “solitario nell’alba” e il respiro della donna amata diventa il respiro stesso del poeta che si piega come un calogeriano filo di capelvenere alla sorgente da cui scaturirà un fiume di parole poetiche, grazie alle quali la sofferenza esistenziale acquista un significato nuovo e “le mille storie della solitudine, le mille donne” tra le quali cercava quella “per cui vivere valesse la pena” diventano un ricordo quasi nostalgico.

Un discorso a parte merita la raccolta di poesie dialettali “Carmarìa”, non tanto per i contenuti, quanto perché, scritta nel vernacolo che è stato per il poeta la prima lingua, contiene un modo di sentire accettato e vissuto per generazioni, che vibra in una individualità poetica di genuina formazione e che permette di rappresentare con maggiore immediatezza i sentimenti di chi li ha scritti.

Con questo non intendo negare che Pace sia nato come poeta di lingua italiana, né sostenere che egli si sia avvicinato al verso vernacolare con spirito folcloristico: i suoi versi in dialetto calabrese dimostrano che la produzione vernacola non è da relegare tra i prodotti spuri dell’espressione artistica. Parafrasando quanto sostenuto da Benedetto Croce in La letteratura della nuova Italia, mi sento di affermare che il diritto della poesia dialettale arde ancora in ogni angolo della Penisola e ancor di più in un Sud in cui il dialetto è stato indicato per decenni come segno di minorità sociale e sta ora diventando segno dell’identità di un popolo oppresso da sempre.

In conclusione, non è azzardato sostenere che quella di Natale Pace, in lingua o in vernacolo, è poesia genuinamente lirica. In essa è narrato il mondo interiore del poeta, i suoi sentimenti, i suoi stati d’animo più profondi: l’amore è certo il tema dominane, ma vi trovano posto la gioia, il dolore, i sogni e le speranze, i ricordi e i rimpianti, le paure più profonde e le bellezza di una Calabria “Grande e amara” di cui il poeta si sente figlio legittimo.

Giuseppe Antonio Martino