Dopo due anni di assenza sdegnosa, Beppe Grillo è rientrato a casa, ha richiamato tutti attorno a sé e non si è limitato a dettare la linea. L’ha imposta. In due tempi. Il primo, a inizio di agosto, al grido di «fermiamo i barbari», dopo che Salvini aveva improvvidamente invocato i pieni poteri per sé. Il secondo, quello che forse ha chiuso la partita, sabato scorso, con un appello rivolto ai giovani dem, ma diretto al suo anelastico gruppo dirigente. «Dovete sedervi a un tavolo e essere euforici perché appartenete a questo momento straordinario di cambiamento». Intanto, all’interno del Movimento, il dibattito tra le varie componenti si accende. Si rincorrono le voci che danno Di Maio isolato. L’ala ortodossa preme. Il fichiano Luigi Gallo rompe il silenzio chiesto a deputati e senatori. «Ora con coraggio dimostriamo di essere maturi per garantire, con lo stesso metodo corale e partecipativo del gruppo parlamentare la nascita della migliore squadra di governo per questo Paese». Alcuni parlamentari pentastellati — come racconta l’Adnkronos — attaccano in chat: «Se hai incaricato Conte, lo lasci lavorare e non lo indebolisci così. Ha ragione chi pensa che vogliano sabotare tutto per i propri interessi personali…». Ma il leader, in realtà, vuole ponderare la mossa e decide di prendere la decisione insieme al suo stato maggiore. Una scelta corale anche per dimostrare che il Movimento è con lui. E che non cederà facilmente. Stamattina alle 10 ministri e sottosegretari del governo uscente si incontreranno a Roma. Una riunione chiesta per coordinare le prossime mosse: sul tavolo il futuro «collettivo» dei Cinque Stelle. Ma il messaggio che i pentastellati vogliono indicare, al di là della composizione della squadra, è quello che oggi ha lanciato Gianluigi Paragone. «Luigi Di Maio non piace al Pd perché sta difendendo quello che di buono avevamo fatto nel precedente governo. Luigi deve rimanere centrale. Anche a Chigi!», scrive il senatore, negli ultimi mesi molto critico con il capo politico.

Il Pd rinuncia ai vicepremier. Il Pd prova a sbloccare la trattativa per la formazione del nuovo governo. Il segretario Nicola Zingaretti lancia la proposta di Dario Franceschini: «Via i due vicepremier». Una mossa maturata ieri mattina fatta anche per togliere ogni alibi alle riserve dei Cinque Stelle sul ruolo di Luigi Di Maio. Intanto è in arrivo il voto su Rousseau per chiedere il via libera all’alleanza con il Pd. Il premier incaricato Giuseppe Conte si dice fiducioso di poter salire al Colle già domani o al massimo mercoledì. E respinge le accuse di chi lo dichiara organico ai pentastellati. «Non sono iscritto al M5S, definirmi pentastellato è inappropriato. Ma c’è molta vicinanza». La rinuncia del Pd al ruolo di vice ha dunque spiazzato sia Conte sia Di Maio. Tanto che ieri sera Nicola Zingaretti confidava ai suoi collaboratori: «Non ci sono vertici in programma, nessuno si è fatto sentire. Non so davvero cosa stia avvenendo. Noi abbiamo dimostrato di non essere poltronisti in linea con le dichiarazioni di Beppe Grillo. Loro invece non si sono ancora messi d’accordo». C’è di più: il segretario del Pd fa sapere di essere pronto a sedersi a un tavolo solo quando l’avvocato del popolo e il ministro dimissionario dello Sviluppo economico avranno ritrovato la perduta armonia. Con un programma condiviso davanti: è sui temi del nuovo governo che la piattaforma Rousseau sarà chiamata a votare. Voto che avverrà domani per permettere a Conte di salire al Quirinale e sciogliere la riserva al massimo mercoledì.