Alessandro Corti
Questa volta gufi e cassandre c’entrano poco. La svolta annunciata da Renzi a colpi di hastag e slide non è poi così vicina. Dal fronte del lavoro torna ad arrivare un inesorabile bollettino di guerra. L’illusione di un’inversione di tendenza, sopratutto dopo il Jobs Act varato dal governo, è durata pochi mesi. Certo, a guardare il bicchiere mezzo pieno, come fa il premier, i risultati non sarebbero da buttare via. Anzi. Il tasso di disoccupazione è calato di un paio di punti, il numero di occupati è aumentato di qualche centinaia di migliaia di unità e perfino fra i giovani i senza lavoro sarebbero in calo.
Ma è davvero difficile giustificare l’ottimismo di Renzi dopo i dati diffusi ieri dall’Istat. Numeri inequivocabili. A luglio, infatti, pur in presenza di un lievissimo calo del tasso di disoccupazione, nell’Azienda Italia hanno lavorato 63mila persone in meno. E quattro giovani su dieci, nella fascia di età che va dai 19 ai 24 anni, sono condanni a restare a spasso. E’ vero che ci sono alcuni settori (e alcune fabbriche, come Mirafiori) che continuano ad assumere. Sono le classiche eccezioni che confermano la regola. E la regola è che se non c’è sviluppo, non c’è riforma che tenga: i posti di lavoro non si creano né per legge né per annunci.
Con un Paese che, nel secondo trimestre, è tornato alla crescita zero e che rischia di replicare la poco invidiabile performance anche nei sei mesi successivi, il tema del lavoro è destinato a diventare l’emergenza principale.
Dietro la perdita costante di posti di lavoro ci sono essenzialmente due cause: la caduta della produzione industriale dovuta al rallentamento del ciclo economico e la scarsa produttività delle nostre aziende. Un quadro che, unito alle incertezze politiche legate all’esito del referendum in autunno e alla stasi dei consumi interni, non favorisce la ripresa degli investimenti.
Per uscire dall’impasse e raggiungere la tanto auspicata svolta sul fronte del lavoro occorrerebbe una cura choc: una forte iniezione di investimenti e riforme coraggiose (anche nella contrattazione aziendale) in grado di rilanciare la competitività del nostro sistema manifatturiero.
I dati sulla disoccupazione, insomma, dovrebbero far suonare un campanello di allarme per il governo. Da questo punto di vista la prossima legge di stabilità può rappresentare un importante banco di prova. E, forse, una volta tanto, varrebbe davvero la pena di concentrare le poche risorse disponibili sul tavolo della crescita economica. Magari rimandando la partita della previdenza ad un momento più favorevole. Sarebbe un buon messaggio soprattutto per un’intera generazione di giovani che, in queste condizioni, rischia di saltare l’appuntamento con il mercato del lavoro e, con questo, anche quello della pensione.