A pensare male si fa peccato, ma spesso si indovina, sentenziava Andreotti. Ieri, per una strana coincidenza, mentre il premier annunciava l’avvio del nuovo round delle dismissioni, in un’altra stanza di Palazzo Chigi si cercava di trovare una soluzione all’Alitalia, il simbolo delle privatizzazioni sbagliate. E la compagnia di bandiera non è certo un caso isolato. Basta andare un attimo con la mente a quello che sta succedendo a Telecom o all’Ilva per avere l’esatta dimensione degli errori commessi in passato.
Ora, il governo ci riprova, decidendo di vendere alcuni dei suoi “gioielli”, le quote azionarie obiettivamente più appetibili sul mercato. Il menu di questa prima tranche di dismissioni, che vale circa 12 miliardi, è ricco: dal petrolio dell’Eni al gas della Snam, dal controllo del traffico aereo (Enav) ai servizi assicurativi finanziari per le imprese che investono all’estero (Sace) fino ai cantieri navali e alle stazioni ferroviarie. I proventi saranno divisi fifty fifty fra il Tesoro, che li userà per ridurre il debito, e la Cassa Depositi e Prestiti, che sarà rifinanziata. Lo schema, dal punto di vista contabile, non fa una piega. E anche il timing dell’annuncio (alla vigilia di un importante vertice europeo) è sicuramente ben studiato. Ma, detto questo, per molti aspetti la nuova ondata di privatizzazioni sembra ricalcare strade già percorse in passato.
Prima di tutto, a dettare l’agenda delle dismissioni, è l’esigenza di fare cassa per rispettare i vincoli europei, diventati decisamente asfissianti per un’economia che da tre anni è in recessione. Inoltre, in un momento di estrema debolezza dei mercati finanziari e di depressione delle quotazioni, c’è il rischio concreto che l’operazione possa trasformarsi in una vendita sotto-costo dei pezzi più pregiati e in una vera e propria svendita di quelli meno appetibili. C’è da dire che solo in due aziende su otto si tratta di vere privatizzazioni, dal momento che negli altri casi il Tesoro metterà in vendita pacchetti di minoranza. Ma anche così finiranno sul mercato segmenti e settori strategici che, senza un adeguato controllo, potrebbero creare nuove posizioni di monopolio o per lo meno dominanti.
Insomma, l’impressione è che ancora una volta il grande assente al tavolo delle privatizzazioni sia la politica industriale, due paroline che proprio Letta aveva rilanciato nel suo programma. Certo, i conti pubblici bisogna pur aggiustarli e, come in tutte le famiglie, in tempi di vacche magre, è normale vendere qualche gioiello. Ma se non c’è una strategia e, sopratutto, se non si fissano nuove regole, c’è il rischio concreto che anche le nuove privatizzazioni rappresentino per il Paese l’ennesima occasione perduta.
Antonio Troise
fonte: l’Arena.it