La più grave e lunga crisi degli ultimi 60 anni ha messo in ginocchio il Paese. Un italiano su tre non può fare fronte a spese impreviste, deve rinunciare all’auto, non ha soldi sufficienti per riscaldare la propria casa ed è costretto a tirare la cinghia anche sulla spesa al supermercato. Secondo l’asettica definizione degli statistici, vive a ridosso della “soglia di povertà”. Nel 2008 si trovava in questa condizione il 25% della popolazione. Oggi, se consideriamo l’istantanea scattata da Eurostat, peggio di noi c’è solo la Grecia. Ma sono ancora più scuri i colori contenuti nella tradizionale fotografia scattata dal Censis sulla situazione economico e sociale del Paese. Si scopre, così, che almeno una famiglia su quattro è in difficoltà, non riesce ad arrivare neanche a metà mese ed è del tutto scoperta se deve affrontare una qualsiasi emergenza. Vive, insomma, in bilico, con un perenne senso di incertezza e di paura rispetto al proprio futuro. Il risultato è che, dal punto di vista dei consumi, le famiglie italiane sono tornate indietro di oltre dieci anni. E i tagli non risparmiano nulla: -6,7% per i prodotti alimentari, -15% abbigliamento e calzature, -8% per arredamento e -19% per i trasporti. Crescono solo le spese incomprimibili, quelle impossibili da ridurre, dalle utenze domestiche a quelle medico-sanitarie. La diagnosi del Censis è eloquente: gli italiani sono sotto sforzo e fiaccati da una crisi persistente.
Non poteva essere diversamente in un Paese che, in cinque anni, ha bruciato il 20% della sua capacità produttiva lasciando che l’esercito dei disoccupati superasse quota tre milioni. Il quadro, è addirittura più nero per i giovani: uno su due non trova lavoro. Molti hanno perfino smesso di cercarlo: sono quelli che l’Istat definisce “scoraggiati”. Come dargli torto dal momento che si trovano a vivere in un Paese che continua a perdere colpi. Fra il 2007 e il 2012 il Pil europeo è cresciuto in media dello 0.7%, quello italiano è calato di quasi sette punti, dieci volte di più. E, in questo caso, è difficile invocare il facile alibi della recessione: il gap è troppo marcato per avere solo cause congiunturali.
Ma il paragone diventa addirittura sconfortante se si osserva quello che sta avvenendo Oltreoceano dove anche le agenzie più caute prevedono che gli Stati Uniti diranno definitivamente addio alla crisi già a fine anno e dovrebbero mettere a segno, nel 2014, una crescita superiore al 3%. Dati che non si intravedevano da almeno cinque anni. Anche l’Europa si sta rimettendo in marcia, sia pure con ritmi più blandi. Tanto che ieri il presidente della Bce, Mario Draghi, non ha avuto esitazione a lasciare invariati i tassi di interesse.
Che cosa è successo al Bel Paese? Perché da noi la crisi ha avuto effetti così devastanti? Scontiamo sicuramente ritardi strutturali, su diversi fronti, dall’energia alle infrastrutture, dal fisco alla burocrazia. Proprio ieri, dal ministero dell’Economia, è arrivata la conferenza (buona per le casse dello Stato, meno buona per i contribuenti) che le entrate fiscali sono rimaste stazionarie mentre la pressione delle tasse sugli italiani si attesta sul 44%. Un livello sempre più insostenibile, soprattutto considerando gli ultimi bollettini di guerra della grande crisi.
Ma forse, la colpa più grande, quello che ha dato il colpo di grazia al Paese, è imputabile da una classe politica che si è lasciata distrarre per troppo tempo dalle vicende giudiziarie e non è riuscita neanche, in qualche maniera, ad autoregolamentarsi, mettendo mano alla riforma elettorale. La sentenza della Consulta, da questo punto di vista, rappresenta una bocciatura eloquente non solo del “Porcellum” ma di un’intera stagione. Insomma, quello che è forse mancato più di ogni altra cosa è un governo in grado di pensare non solo al rigore (imposto, del resto, dall’Ue) ma anche alla crescita e allo sviluppo. E, da questo punto di vista, il tempo per il Paese è praticamente scaduto.
Antonio Troise