E’ stato un inizio d’anno con i fuochi d’artificio per la Fiat. Prima la notizia dell’acquisizione del 100% di Chrysler, poi l’euforia in Borsa, con il titolo che ha guadagnato in una sola seduta quasi 17 punti. Se a questo aggiungiamo che il mercato dell’auto, dopo 42 mesi, ha rivisto il segno positivo, la festa è completa. Un nuovo inizio, come hanno giustamente sottolineato Elkann e Marchionne, il tandem che in quattro anni, durante la più grave e lunga recessione del dopoguerra, sono riusciti a trasformare il Lingotto in uno dei pochi big che si contenderanno il mercato globale dell’auto. Basta scorrere gli editoriali che i principali giornali economici, dal Financial Times al Wall Street, hanno dedicato all’affare per rendersi conto dell’impatto anche mediatico che ha avuto l’operazione. Ma, se spostiamo l’attenzione dal versante internazionale a quello italiano, la musica cambia e i toni, sotto l’apparente coro di soddisfatta adesione, sono diversi. Prima di tutto la nascita di un gruppo globale, che va da Torino a Detroit, cambia la geografia “politica” della Fiat. C’è il rischio concreto che l’Italia possa diventare sempre di più periferia di un impero che ha il suo cuore produttivo (e il suo fatturato) in un’economia che è già uscita dalla recessione. C’è poi tutto il capitolo degli investimenti. Il vecchio progetto di Fabbrica Italia, lanciato nel 2009 e abbandonato l’anno successivo sotto i colpi della recessione, difficilmente sarà riesumato dall’attuale management. Il nuovo gruppo deve fare i conti con un indebitamento vicino a 10 miliardi di euro. In vista di una quotazione del nuovo colosso italo-americano, bisognerà prestare molto attenzione alle ragioni del bilancio piuttosto che a quelle del “cuore”. Come a dire, investimenti che non diano ampie garanzie di ritorno saranno sicuramente messi da parte. E qui, il discorso, chiama direttamente in causa un Paese che, negli anni della crisi, non è riuscito a mettere in campo neanche un barlume di riforme o di politica industriale. Gli attriti e le polemiche di Marchionne con la politica, una parte dei sindacati ma anche un buon pezzo dell’estabilishement imprenditoriale (basti ricordare l’uscita di Fiat dalla Confindustria) sono l’emblema di un rapporto fatto di ostilità e diffidenza. Ora, con un gruppo diventato un player globale, sono finiti anche gli alibi. Corso Marconi dovrà presto scoprire le sue carte sul destino degli stabilimenti italiani, a cominciare da Cassino e Mirafiori. Ma anche la politica e i sindacati dovranno fare la loro parte e far capire se davvero voglio che l’Italia conservi un posto al sole fra i big dell’industria manifatturiera o se, invece, vogliono abbandonare la partita per difendere interessi di bottega o illusorie rendite di posizione.
Antonio Troise
Antonio Troise