Sergio Marchionne non avrà la costanza di Hamilton o la grinta di Räikkönen. Eppure il suo arrivo nella cabina di guida della Ferrari, dopo l’era Montezemolo, è già destinato a segnare un traguardo storico: la quotazione in Borsa. E, ancora una volta, sarà un’operazione tutta all’insegna del dell’internazionalizzazione, come è già avvenuto per il rilancio della Fiat. il titolo di Maranello, infatti, esordirà prossimamente a Wall Street per poi approdare, dopo il primo giro di pista, anche a Piazza Affari. L’operazione, avviata ieri, ha altre due caratteristiche non meno interessanti.

Prima di tutto, in Borsa finirà solo un pacchetto di minoranza del capitale, più o meno il 10%, che dovrebbe portare nelle casse della società una dote di 4 miliardi. Una cifra importante per continuare a investire e recuperare il terreno perduto anche nella classifica di Formula Uno e per la gioia dei tifosi (oltre che degli azionisti). Non meno importante il secondo aspetto del progetto: la sede fiscale della Ferrari resta in Italia, così come il suo gruppo dirigente e il suo centro decisionale. Insomma, Maranello continuerà a pagare le tasse qui, nel Bel Paese, senza imboccare la pista dei facili paradisi fiscali o dei Paesi che offrono sicuramente vantaggi sul fronte delle imposte.

Ma la quotazione della Ferrari ha anche due ulteriori significati. Primo di tutto è la dimostrazione che, in un economia ormai globalizzata, muoversi sui mercati internazionali non è affatto in contrasto con la difesa degli interessi nazionali. Oggi, il talento italiano rischia di essere insufficiente per fare fronte a concorrenti sempre più agguerriti e competitivi. Le gare della Formula Uno sono forse l’esempio più evidente. Qui la competizione è spietata, si combatte sul filo dei centesimi di secondo. Ed è vietato sbagliare.

Nello stesso tempo, il caso Ferrari dimostra ancora una volta la potenzialità del Made in Italy e, soprattutto, la possibilità di crescere conservando ben solide, le sue radici nazionali. Nonostante tutto l’Italia resta, infatti, il secondo Paese manifatturiero europeo dopo la Germania. Una posizione che va difesa a tutti i costi e inseguendo non tanto i miraggi della finanza e dell’economia di carta ma quello dei progetti industriali che possono raccogliere, sui mercati, i fondi necessari per continuare a investire. Il caso Ferrari è forse la prova più evidente che è possibile fare “buona impresa” negli anni duri della crisi e in un Paese che continua ad avere un gap enorme di competitività nei confronti dei suoi diretti concorrenti. E’ il simbolo più eloquente di un modello di sviluppo che andrebbe spinto e incoraggiato. Magari tornando a fare politica industriale, se non altro per non lasciare sole sui mercati globali le tante piccole, medie e grandi imprese che in Italia continuano a restare, a pagare le tasse e a crescere. Nonostante tutto e senza essere dei fuoriclasse come la Ferrari.