Più che un incidente di percorso si è trattato di un errore tattico. Il risultato è che la legge Zan contro l’omofobia è stata ieri affossata al Senato da una trentina di franchi tiratori. Al di là del merito della legge, ora si torna al punto di partenza, con il centrodestra che esulta e con il centrosinistra che scarica tutte le responsabilità su renziani di Italia Viva. La verità, però, è che, giorno dopo giorno, la distanza fra quello che avviene sul fronte politico e quello che, invece, si registra a Palazzo Chigi, diventa sempre più ampia. Dopo otto mesi di navigazione in sordina, è tornata nei partiti la voglia di rialzare la testa, limitando quella libertà di manovra di cui ha goduto fino ad ora il presidente del Consiglio, Mario Draghi. La maggioranza “liquida” che ieri ha fatto scattare a Palazzo Madama il disco rosso sulla legge Zan è forse l’esempio più concreto dei fragili equilibri nei rapporti di forza fra le forze politiche ed è un antipasto di quello che succederà, a gennaio, per l’elezione del PResidente della Repubblica. Nel frattempo, super-Mario non ha nessuna intenzione di lasciarsi condizionare. Il governo tira dritto sui suoi tre obiettivi: la battaglia contro il Covid, l’utilizzazione dei fondi europei e la ripresa dell’economia. Del resto, sarebbe davvero illusorio pensare che l’emergenza sia finita e che il lavoro di Draghi sia ormai giunto al termine. FIno ad oggi Bruxelles e i mercati hanno confidato soprattutto sull’autorevolezza e la credibilità internazionale dell’attuale premier per dare una nuova patente di fiducia al nostro Paese. Pensare di tornare alla vecchia politica delle maggioranze variabili e dei litigi fra i partiti sarebbe un preoccupante passo indietro in una fase economica e sociale ancora segnata dall’emergenza.