di Antonio Troise
“Chi di Brexit ferisce, di Brexit perisce”, verrebbe da dire dopo le cronache degli ultimi giorni a Londra, con il governo di Theresa May che perde pezzi. Prima si è dimesso il gran tessitore dei negoziati per l’uscita della Gran Bretagna dall’Ue, David Davis. Imitato, dopo qualche ora, dal suo vice, Steve Baker. Ieri ha gettato la spugna il ministero degli Esteri, Boris Jonnson. Una brutta tegola per Downing Street che da tempo, invece, ha imboccato la strada della “soft-Brexit”, dell’addio “dolce” da Bruxelles, con la creazione di un mercato unico e la difesa dell’Unione doganale. Una strada fortemente sgradita ai teorici dello “strappo puro e duro” con il Vecchio Continente. Il risultato, però, è che a più di due anni dal referendum che ha sancito il divorzio dall’Europa, a Londra regna la più completa incertezza, la situazione che i mercati meno gradiscono. Fino al 2016 l’economia inglese era la più dinamica del G7. Ora il suo Pil galleggia quasi allo stesso livello dell’Italia. Il deficit commerciale è salito alle stelle. Il deprezzamento della sterlina non ha spinto l’export. L’aumento dei prezzi ha fatto crollare il potere di acquisto e, conseguentemente, anche i consumi interni. Finora, insomma, la Brexit si è rivelata un pessimo affare per gli inglesi.
Ma non basta. L’indebolimento della linea “trattativista” della May potrebbe innescare una deriva dagli esiti semplicemente imprevedibili. Con il rischio reale di un fallimento del negoziato che porterebbe la Gran Bretagna a fare quello che tutti temono: un salto nel buio.
La premier inglese dovrà faticare non poco per tenere insieme l’esecutivo e rimpiazzare i ministri ribelli. Forse avrebbe dovuto farlo già un anno fa, quando erano chiare le posizioni di alcuni esponenti di spicco della maggioranza. Ora i vertici dell’Ue potrebbero non fidarsi più della May e, quindi, rendere ancora più complicata la complessa partita che si sta giocando, in queste ore, fra Londra e Bruxelles.
Sarebbe, però, un errore lasciare la Gran Bretagna al suo destino. Se è difficile uscire dall’Ue, non è certo meno facile restarci. Le divisioni dell’ultimo vertice a 27 hanno messo in mostra, una volta di più, i problemi di governance del Vecchio Continente, dove le spinte centrifughe e populistiche non si sono affatto attenuate. Di fronte a questo scenario, allora, un accordo per tenere in qualche maniera dentro i confini dell’Europa l’Inghilterra non sarebbe sbagliato. Nessuno vuole porgere l’altra guancia dopo lo schiaffo del referendum sulla Brexit. E’ importante, invece, che l’Europa ritrovi se stessa facendo capire che l’Unione non significa solo sacrifici ma anche sviluppo e crescita. Concetti che, negli ultimi anni, si sono smarriti nelle nebbie dell’euroscetticismo e dell’egoismo degli Stati Nazionali.