Il caso Apple-Fbi riaccende il dibattito sul tema sicurezzaVSprivacy. Ne parla Massimo Gaggi sul Corriere della Sera osservando che è “meglio non tracciare linee nette per dividere buoni e cattivi nella crypto war tra la Apple (appoggiata dalle altre aziende digitali, a partire da Google) e il governo americano. Intanto perché questa guerra del criptaggio degli iPhone che covava da mesi sotto la cenere viene combattuta attorno a nodi complessi che gli incontri di gennaio del capo dell’Fbi e del ministro della Giustizia Usa con i big della Silicon Valley non sono bastati a sciogliere.

E poi perché ogni persona che ha in tasca un iPhone o un cellulare che utilizza Android di Google (il 96% degli smartphone del mondo) vuole che i servizi di sicurezza dispongano di tutti gli strumenti necessari per combattere il terrorismo, ma è anche sensibile alle parole di Tim Cook: creare un sistema per infrangere le difese antihacker di un iPhone significa renderli vulnerabili tutti. Vero, ma è meglio diffidare dei sacerdoti della tecnologia che trasformano un’innovazione (dunque un business) in virtù morale. I campioni della Silicon Valley tendono da sempre a dare alle loro attività un valore etico sociale e di cittadinanza che va molto oltre quello economico, salvo tornare sui propri passi se le convenienze cambiano”.