La crisi pandemica ha rappresentato un momento di svolta per le imprese di tutto il mondo, costringendole a confrontarsi con una completa riorganizzazione delle abitudini e dello stile di vita delle persone e imponendo una trasformazione del tessuto produttivo e degli spazi urbani.

Una recente ricerca dello SVIMEZ (Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno) ha messo in evidenza come oltre 45.000 dipendenti di grandi aziende del centro-nord (fino a 100.000, se si includono nelle statistiche anche i dipendenti delle PMI) si siano ricollocati, grazie allo smart working, nelle aree meridionali del nostro Paese, dando vita a una nuova forma di nomadismo digitale post-pandemico: un fenomeno chiamato southworking.

Gli esperti dello SVIMEZ sostengono che questa tendenza potrebbe stabilizzarsi e diventare il volano per una “contro-diaspora” anche dei gruppi demografici interessati solo parzialmente dalla tendenza attuale. Si intendono nello specifico i giovani laureati nella fascia d’età tra i 25 e i 34 anni, un target estremamente dinamico che negli anni passati si era cercato di far ritornare in loco con diversi progetti, ma con alterne fortune.

Ne è convinto anche uno dei maggiori esperti sul tema, Enrico Moretti. L’economista e docente in economia del lavoro e delle città a Berkeley, già autore del famigerato La nuova geografia del lavoro, ha recentemente sottolineato come questo fenomeno possa contribuire non solo ad alleggerire le metropoli dal peso di servizi orientati al pendolarismo – con grandi benefici in termini di sostenibilità – ma anche a creare nuovi centri di competenze diffusi su tutto il territorio nazionale.

In questo contesto, il ruolo delle aziende locali diventerà sempre più cruciale, e non solo per la creazione e la promozione di nuovi prodotti e servizi rivolti a questo segmento della popolazione. Spronerà infatti anche gli attori istituzionali alla realizzazione di servizi ad hoc, volti a stabilire sinergie tra le aziende di questi lavoratori e il tessuto imprenditoriale locale, nonché all’implementazione di nuove filiere allargate ancora da definire.

Sarà fondamentale la preparazione che le nostre aziende faranno a monte di questi processi, lavorando su uno storytelling, una brand identity e una visual identity aziendale mirata.

La brand identity è l’identità dell’azienda in senso stretto ed è costituita da tutti quegli aspetti che la rendono identificabile agli occhi del proprio target, compresa la visual identity. La visual identity, invece, è composta da tutti gli aspetti visivi e dai codici utilizzati dall’azienda per comunicare con la clientela. In sostanza, la brand identity riguarda il messaggio che l’azienda vuole trasmettere, mentre la visual identity riguarda i mezzi visivi attraverso i quali questo messaggio viene trasmesso. Creare un brand forte richiede non solo lo sviluppo di un logo e di uno payoff efficaci, ma anche una strategia che sfrutti tutte le opportunità per far conoscere il proprio marchio, tra cui depliant, brochure, volantini e altro materiale pubblicitario volto a fornire informazioni sulla propria azienda.

Un buon esempio è la creazione di prodotti personalizzati in grado di trasmettere ai clienti l’immagine di un’azienda professionale. Questo processo può rivelarsi un valore aggiunto anche nella situazione attuale, poiché permetterebbe di veicolare i valori del marchio anche nel contesto dell’home office, rinforzando la visibilità del brand in contesti virtuali (riunioni, conferenze, videochat on-line) e agevolando il passaggio da utente ad ambassador aziendale.

Il branding del futuro potrebbe parlare al mondo e al Sud.