Sembra che in quest’ultimo periodo abbiamo superato il tabù della morte. Ma forse non ce ne siamo accorti?
Sentiamo trattare il tema della morte con frequenza giornaliera: giornali, radio, TV – a pranzo, cena e colazione. Siamo costantemente e quotidianamente informati di morte. In particolare di morti di giovani, di ragazzi. Ci sono quelli che muoiono cadendo da una finestra o da un muretto, o perché hanno preso una pasticca, o perché hanno insidiato la ragazza di un’altro, straniero, o perché si uccidono in una guerra tra bande. Ogni giorno il conto. Tutti ragazzi. Tutti giovani. Tutti figli. Figli nostri. Tanti. Sembra il gruppo degli amici dei nostri figli. Potrebbero esserlo. Vicini o lontani che siano, o che siamo. Potremmo conoscerli tutti. E noi facciamo parte di quei genitori lì! Vicini o lontani che siamo.
Ma perché questo quotidiano bollettino, questo necrologio no stop? Abbiamo superato il tabù della morte, o è un monito? Ma per essere un monito dovrebbe essere comprensibile il messaggio, un messaggio forte e chiaro. Ma non lo è. Quello che prevale, è la reazione emotiva: orrore, senso di colpa e compassione. Questi sentimenti primordiali però bloccano il pensiero e l’azione. E il da farsi. Sentimenti primordiali. Alle nostre latitudini sembra che noi siamo preda e prigionieri di sentimenti primordiali: sacrosanti e legittimi, ci mancherebbe, ma in qualche modo assolutori e consolatori, e troppo spesso risolutori. Ci areniamo e ci esauriamo nell’emotività. Senza rendercene conto, ci mettiamo la coscienza a posto. Una sorta di penitenza, che ci monda dalle responsabilità e dalle azioni per limitare, diminuire, prevenire queste morti.
Non so se le discussioni televisive aiutano a comprendere il perché. Emozioni primordiali e fiumi di parole, dove si dice tutto e il contrario di tutto: coriandoli variopinti che svolazzano. Sicuramente troppo poco è quello che si fa. Ma sappiamo fare qualcosa? Poco. Chi dovrebbe fare? Boh!!!. Anzi no, sappiamo benissimo chi dovrebbe pensare e fare. Ma siamo presi da altro. Come al solito. Siamo presi da altro e non ci accorgiamo dei nostri figli, di quello che gli serve. Li seguiamo poco. Crediamo di dargli quello che gli serve, ma c’è qualcosa che non quadra.
Sappiamo bene chi potrebbe pensare e fare, avere uno sguardo esperto e continuo: gli operatori del sociale, gli educatori, gli sportivi, gli psicologi, i creativi, i formatori, chi può ideare e creare occupazione. Però ci ritroviamo sempre i soliti Mangiafuoco, e le risorse sono ridotte o sprecate, e i progetti e i programmi sono discontinui, a macchia di leopardo, mal pagati e spesso affidati a persone poco esperte. Avremmo bisogno di azioni e programmi strutturali (educativi, di orientamento, di reale preparazione e introduzione al lavoro, di gestione del disagio e di inclusione sociale), affidati a persone esperte, che sanno quello che fanno. La società che non destina risorse per queste cose, che non dà valore ai giovani, assomiglia a quei genitori distratti, che non si accorgono e non hanno tempo per i figli. E come al solito, alle nostre latitudini, presi dalle emozioni, sprechiamo e disperdiamo i nostri capitali.
James Hillman, il noto psicoanalista di fama internazionale, che fu allievo di Carl Gustav Jung, in un suo libro (L’anime del mondo) ha cercato di spiegarci che i giovani sono più vicini alla vita e più vicini alla morte, in virtù dell’estrema carica vitale ed esuberanza di vita. Non fanno i conti con la morte, con il limite che la morte pone a certi comportamenti e al naturale desiderio dell’azzardo, dell’avventura, dell’entrare nel buio. C’è tanta è tale vita, che il limite della morte diventa invisibile. Diversamente dagli adulti, i quali sentono la riduzione della carica e della spinta vitale, imparano a fare maggiormente i conti con la morte, sono più propensi a preservare la vita e a stare attenti.
Alla fine però la domanda è: ma stiamo sfatando il tabù della morte, o siamo un pubblico che assiste a sacrifici umani?