Mario Monti, Corriere della Sera
I partiti non compiano autogol sulle votazioni per la riforma del Mes. E’ l’invito che Mario Monti rivolge dalle colonne del Corriere della Sera: “Con il voto di oggi in Parlamento – scrive – l’Italia rischia di nuocere a sé stessa e alla propria efficacia in Europa. Questo avverrebbe se sul punto più controverso, la riforma del trattato sul Mes, la linea con la quale il premier Conte intende presentarsi domani al Vertice dell’Eurozona, non ottenesse la maggioranza in entrambe le Camere. Dopo le trattative protrattesi fino a ieri sera, il rischio sembra rientrato. Rientrato, per l’Italia; ma non per alcuni partiti italiani. Se il presidente del Consiglio superasse, come sembra verosimile, la prova parlamentare di oggi, qualche partito che votasse contro la riforma del Mes essenzialmente per mettere in difficoltà Conte potrebbe trovarsi stasera con il danno e la beffa. Soprattutto in Europa, dove ormai si svolge la politica che conta di più, come si è visto con l’elezione della presidente della Commissione von der Leyen o con il varo degli strumenti per rilanciare l’economia. Per qualche partito, votare oggi contro la riforma del Mes vorrà dire ricreare perplessità nella famiglia politica di appartenenza. Penso a Forza Italia e alla sua collocazione nel Partito popolare europeo, che è importante per il presidente Berlusconi ma anche per l’Italia. Dal punto di vista politico, non verrebbe per nulla apprezzata un’Italia che, unico Stato dell’Eurozona, bloccasse la riforma del Mes con il proprio veto; proprio come Ungheria e Polonia, nel Consiglio europeo, cercheranno di bloccare il Recovery fund e il bilancio settennale. Ancor meno verrebbe apprezzato in casa popolare, per esempio da Angela Merkel e Ursula von der Leyen, che l’Italia non blocchi, ma solo perché Conte è riuscito a raccogliere un numero di parlamentari 5 Stelle sufficiente a prevalere sui «no» degli italiani del Ppe. Probabilmente, se all’indomani delle elezioni del marzo 2018 il Pd non si fosse lasciato bloccare da Renzi e avesse aperto un dialogo con il M5S, trovando un terreno comune soprattutto sull’Europa, invece di costringerlo di fatto ad allearsi alla Lega, non solo si sarebbero risparmiati molti danni all’Italia, alla sua reputazione, alla sua crescita e alle sue finanze, ma oggi il M5S sarebbe verosimilmente più avanti nel suo cammino europeo, che avrebbe vissuto non come una serie di forzati arretramenti divisivi, ma con l’entusiasmo di essere stato tra i precursori di un’Europa più verde, più digitale, più sociale e più equa”.
Stefano Folli, la Repubblica
“Oggi, mentre le due Camere voteranno sul cosiddetto fondo “Salva-Stati”, gli osservatori di Germania e Francia, in primo luogo gli ambasciatori a Roma, avranno motivo di essere contenti a metà”. Lo scrive Stefano Folli su Repubblica spiegando: “È chiaro infatti che il Parlamento dirà ‘sì’ al meccanismo. Ben pochi ne dubitavano, ma ieri se ne è avuta la quasi certezza dopo che i Cinque Stelle hanno deciso – senza stupire nessuno – che la loro priorità è la salvezza del governo di cui sono soci di maggioranza. In tal modo si compie la loro trasformazione, diciamo così culturale, salvo una piccola frangia ormai ininfluente: da forza anti-sistema a rotella di un “establishment” europeo a cui accedono più per convenienza che per convinzione. Al tempo stesso i due diplomatici non possono essere del tutto soddisfatti. È vero che il presidente del Consiglio italiano arriverà al vertice europeo recando il dono più atteso – l’adesione al Mes -, tuttavia a Roma l’esecutivo 5S-Pd-LeU-Iv è in una condizione politica precaria. Una precarietà che nella giornata di ieri è persino peggiorata, avendo il Consiglio dei ministri – e anche questo era da mettere nel conto – aggiornato i suoi lavori senza decidere alcunché circa la gestione dei fondi europei, ossia l’architettura bizantina escogitata dal premier per non perdere il controllo diretto su spese e investimenti. Da Bruxelles la Commissione non ha fatto un favore al partner italiano, negando di aver mai suggerito agli Stati dell’Unione a quale tipo di struttura affidarsi per spendere le risorse: ogni amministrazione è libera di organizzarsi come crede, quindi non c’è una copertura europea che Palazzo Chigi possa invocare. Il premier ha una sola carta da giocare: essere l’uomo che assicura un livello accettabile di stabilità. È quello che interessa all’Unione – leggi Berlino e Parigi – ed è il motivo per cui si avverte una crescente inquietudine a Bruxelles e nelle capitali. Va bene il Mes, ma la stabilità a Roma appare insoddisfacente, troppo tendente all’immobilismo. È il punto su cui Conte deve render conto al Quirinale, perché il vero garante della solidità italiana in Europa è Mattarella. E un chiarimento tra le forze politiche presto s’imporrà. Spetta anche al buon senso del premier evitare che tale passaggio precipiti in una rissa confusa di tutti contro tutti”.
Vladimiro Zagrebelsky, La Stampa
L’Ue non deve cedere ai ricatti dei sovranisti di Visegrad nella partita sul bilancio Ue. Così Vladimiro Zagrebelsky sulla Stampa. “Ciò che interessa – scrive – è il varo di quel progetto, con o senza Polonia e Ungheria. È vero che gli Stati dell’Unione possono adottare iniziative di “cooperazione rafforzata”, che lasciano fuori gli Stati che non vogliono parteciparvi. Ma il piano di finanziamento europeo rappresenta un passo fondamentale nello sviluppo dell’Unione; si aprirebbe uno scenario nuovo, di un’Europa a due velocità, che finora non si è voluta adottare, cercando sempre di avanzare tutti insieme. La profondità della crisi scatenata dalla posizione di Polonia e Ungheria deriverebbe dal convergere di motivi sia legati al bilancio dell’Unione, sia riguardanti la natura stessa del progetto europeo. Aspetti entrambi fondamentali per lo ‘stare insieme’. Negli anni recenti molti organismi europei hanno denunciato in Polonia e in Ungheria attacchi alla indipendenza dei sistemi giudiziari, fenomeni di concentrazione dei media raggruppati nell’area filogovernativa, intolleranza verso le minoranze: tutte lesioni dei caratteri propri dello stato di diritto e della democrazia. Mentre anche in queste ore si cercano soluzioni che inducano Polonia e Ungheria a rinunciare al loro veto al bilancio dell’Unione europea, una udienza da poco tenutasi alla Corte di Giustizia merita di essere segnalata, perché mette in luce un aspetto importante della vicenda. La Corte, investita da un ricorso della Commissione europea, deve giudicare se una nuova legge sulla responsabilità disciplinare dei giudici polacchi ne leda l’indipendenza. La questione non è esclusivamente di diritto interno polacco, poiché i giudici degli Stati membri applicano anche il diritto dell’Unione. E l’indipendenza dei giudici è una delle condizioni dello stato di diritto, almeno da quando la separazione dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario è stata riconosciuta come una condizione essenziale della garanzia dei diritti e delle libertà dei cittadini. Nel procedimento davanti alla Corte, accanto alla Commissione europea, si sono costituiti alcuni Stati membri: Olanda, Belgio, Danimarca, Svezia e Finlandia. Non l’Italia, ancora una volta, purtroppo. Quali direttive ha dato Palazzo Chigi all’Avvocatura dello Stato che rappresenterebbe l’Italia davanti alla Corte? Il governo crede sia meglio stare in un angolo e non mettersi troppo in evidenza, piuttosto che partecipare alla difesa dei valori fondanti dell’Unione? In sostanza, per quanto riguarda i finanziamenti dell’Unione, che il grande piano contenuto nel bilancio dell’Unione lega all’osservanza dello stato di diritto, secondo la Polonia il Consiglio europeo non dovrebbe poter decidere per evitare una valutazione politica. In alternativa l’intervento della Corte sarebbe inaccettabile perché ai giudici non si dovrebbero attribuire competenze politiche. Se così è, non vi sono vie di uscita, senza affrontare di petto il nodo di fondo: la compatibilità con il senso e lo scopo dell’Unione della partecipazione di Stati che sostengono rientri nella loro sovranità l’adottare quella che è stata chiamata ‘democrazia illiberale’.
