Il sospetto che il governo Draghi sia nato per far fuori Giuseppe Conte e il suo esecutivo – a impronta spiccatamente meridionalista – non appena l’Europa ha aperto i cordini della borsa, diciamolo… c’era e resta. Perché la rappresentativa nordistache è scesa in campo per la nuova compagine di governo enumera 17 esponenti su 24. E qualcosa vorrà pur dire se è stato ribaltato, in breve, il rapporto di forza, che come è noto nel precedente governo pendeva a favore del Sud. E qualcosa vorrà dire pure il fatto che, nel frattempo, Matteo Salvini – che con il Conte 2 non toccava palla – è tornato a esternare, un giorno sì e l’altro pure, sui social e in tv,proponendo sé stesso come vero ispiratore politico del governo tecnico, che poi tano tecnico non è. E ancora: vorrà dire qualcosa se – ad esempio – al ministero per gli Affari regionali la bresciana Maria Stella Gelmini prende il posto di Francesco Boccia (che sia detto per inciso: è di Bisceglie) e teneva sotto mira l’autonomia regionale giallo-verde. Il tema di oggi è “come spendere la dote di 210 miliardi del Recovery Fund”, che il premier terrone Giuseppe Conte riuscì a portare a casa, da Bruxelles, inaspettatamente. Correva l’anno 2020, era il 10 di dicembre. Solo 4 mesi orsono. Oggi dalle parole si è passati ai fatti. Anzi agli sghei. E il sospetto che, adesso che si tratta di far sul serio, si sia spinta fuori campo un’intera classe dirigente, c’è e resta: dai napoletani Gaetano Manfredi, Enzo Amendola e Sergio Costa, Vincenzo Spadafora ai siciliani Alfonso Bonafede, Nunzia Catalfo e Beppe Provenzano. Tutti a casa.
Il sospetto resta. Ma occorre aggiungere onestamente che, all’indomani degli Stati generali del Sudvoluti dalla neo ministra Mara Carfagna, risulta sensibilmente smorzato. Almeno a parole, almeno quelle. Perché è intervenuto il premier in persona, dichiarando che in cima alle preoccupazioni del suo esecutivo c’è l’intenzione di “fermare l’allargamento del divario tra Nord e Sud … dal momento che il prodotto per persona è passato dal 65 al 55% del Centro Nord” e negli ultimi anni c’è stato il dimezzamento della spesa pubblica nel Mezzogiorno.
Il Sud torna ad essere questione nazionale? Sì, no, forse… Ma appare chiaro e distinto, molto più di ieri, che solo riducendo il divario tra Mezzogiorno e Centro –Nord si può far ripartire l’Italia, radice della sostanziale stagnazione della sua economia.
Stavolta è Draghi che dà le carte. A dirla tutta tracce del suo pensiero sul Sud risalgono al lontano 2009.Alla pubblicazione che si intitola “Il Mezzogiorno nella politica economica dell’Italia” e raccoglie i contributi presentati al Convegno su “Il Mezzogiorno e la politica economica dell’Italia” tenutosi a Roma il 26 novembre 2009. Allora superMario era governatore della Banca d’Italia. Ecco alcune dellesue esternazionidi dodici anni fa: 1) Il Sud, in cui vive un terzo degli italiani, produce unquarto del prodotto nazionale lordo; rimane il territorio arretrato più esteso e più popoloso dell’areadell’euro. 2)mentre le altre regioni europee in ritardo di sviluppo tendono a convergere verso la media dell’area, il Mezzogiorno non recupera terreno. Iflussi migratori verso il Centro Nord sono di nuovo ingenti… Il tasso di attività nelmercato del lavoro resta tra i più bassi d’Europa, soprattutto per i giovani e per le donne. Tutto bene, or dunque? I terroni non comandano più, ma possono egualmente stare sereni … O no?
Non si può stare sereni perché proprio gli Stati generali voluti dalla Carfagna hanno posto in evidenza due fattori frenanti: 1) La scarsa capacità di spendere i fondi europei; 2) la tara della cronica lentezza italiana nella realizzazione delle opere pubbliche.
C’è poco da stare allegri, quindi, se non il Sud, ma il sistema Paese fa acqua da tutte le parti. Anzitutto nelle procedure degli appalti dove l’Italia vede in media passare, dalle offerte alla aggiudicazione, ben 216 giorni, quasi quattro volte di più della Germania, che se la cava con 54 giorni.
Abbiamo scoperto che la patologia non sta solo nella qualità dell’amministrazione pubblica meridionale (che certamente ci mette del suo) ma in un meccanismo nazionale va completamente ripensato. E c’è da dire anche che sul tema della scarsa capacità di spendere le risorse europee del Fondo per lo sviluppo e la coesione (dove alla fine dello scorso anno, segnala Draghi, è stato speso poco più di 3 miliardi, appena il 6,7%) c’è da fare un doveroso commento.
Riguarda la cronica incapacità italiana (e non solo ed esclusivamente meridionale) di utilizzare le risorse messe a disposizione dall’Unione europea. Secondo un report della Corte dei Conti europea aggiornato a settembre 2020, l’Italia è penultima per capacità di assorbimento dei fondi del bilancio 2014-2020, con circa il 38 per cento delle risorse effettivamente erogate dall’Unione Europea. All’ultimo posto della classifica c’è la Croazia, col 36 per cento (che però è entrata nell’Unione solo nel 2013). Francia e Germania sono a metà classifica, rispettivamente col 53 e il 49 per cento, mentre al primo posto c’è la Finlandia, col 73 per cento. Il perché lo spiega bene un articolo di Riccardo Antimiani (https://www.ilpost.it/2020/12/13/italia-fondi-europei/). Proviamo a riassumere.
- C’è di mezzo la scarsa qualità del personale amministrativo e burocratico, molto coinvolto nella gestione dei fondi strutturali.Gli impiegati dell’amministrazione pubblica italiana hanno in media 50,7 anni – molto più avanzata rispetto a Regno Unito e Francia, per esempio – e solo 4 su 10 hanno una laurea. Quei pochi che ne hanno una, spesso ce l’hanno in Giurisprudenza o Economia: due titoli di studio che servono a poco per immaginare un progetto. Ancora oggi l’amministrazione italiana ha modalità «ottocentesche» per assumere dipendenti e collaboratori. Le prove da sostenere riguardavano soprattutto argomenti di diritto civile, amministrativo e penale.
- La classe politica locale, che spesso preferisce appoggiare piccoli progetti che assicurino pacchetti di voti, oppure delegare completamente ai tecnici la complessa macchina di gestione dei fondi europei. È un grosso problema soprattutto nel Sud Italia, dove è indirizzata la maggior parte dei fondi e dove la politica si muove spesso con logiche clientelari.
- l’Unione Europea non è riuscita a semplificare le procedure per accedere ai finanziamenti. Nell’ultimo bilancio pluriennale 2014-2020, ha introdotto due clausole che dovevano rendere più efficiente l’assorbimento dei fondi ma che almeno nel caso italiano lo hanno reso più complesso. La prima è la cosiddetta condizionalità ex ante, introdotta per assicurarsi che gli stati scegliessero di impegnarsi in progetti su cui avevano già individuato un contesto favorevole. In realtà soddisfare i requisiti della condizionalità è risultato un ulteriore passaggio burocratico, secondo alcuni evitabile. L’altra è la cosiddetta regola “n+3”, per cui i progetti hanno tre anni di tempo per concludersi dopo il termine indicato all’avvio dei lavori. La regola era stata probabilmente pensata per dare più tempo alle amministrazioni maggiormente in difficoltà, come appunto quella italiana, ma ha finito per rendere più lenta l’attuazione dei progetti, dato che le amministrazioni hanno percepito di avere più tempo a disposizione per completarli.
Veniamo al punto. Il Sud – con le sue storture e criticità conta certo, ma non più del 33%. Il resto se lo dividono equamente Italia ed Europa. Quest’ultima, ad esempio, non ha fornito una buona prova di sé nemmeno nella negoziazione delle forniture dei vaccini, con contratti del tutto privi di penalità per le inadempienze delle aziende fornitrici. Dinanzi alle quali la burocrazia europea si è dissolta con comportamenti omissivi assai simili a quelli di solito vengono attribuiti ai terroni. E’ proprio vero che da qualche parte c’è sempreunsud di qualche nord. Prima o poi si manifesta.Magari proprio dove meno te lo aspetti.
Claudio D’Aquino