Antonio Troise
Gli uffici di Bruxelles dove si distribuiscono i fondi europei destinati alle aree meno sviluppate, sono tappezzati con grandi fotografie. Strade, porti, viadotti, reti ferroviarie. Tutto quello che è stato realizzato nel tempo con il grande fiume di risorse comunitarie. La cosa che subito colpisce è che non c’è neanche un’istantanea che riguarda il Bel Paese. Ci sono le autostrade spagnole, quelle greche, qualche grande stabilimento rigorosamente insediato nei paesi dell’est…
Forse è opportuno partire da qui per capire come e perché la grande occasione dei fondi comunitari in Italia si sia trasformata in un grande spreco. Negli altri paesi le risorse comunitarie sono state concentrate su un ristretto numero di grandi progetti strategici, in grado di accelerare i ritmi dell’economia. Da noi si sono trasformati in pioggia di coriandoli che si è dispersa sui territori senza alcun effetto concreto sul fronte dello sviluppo. Basta fare un salto sul sito dell’ex ministero della Coesione (cancellato da Renzi) e scorrere velocemente la lista dei 75mila progetti che hanno ottenuto finanziamenti negli ultimi cinque anni per capire come e perché in Italia la dote ricchissima (circa 100 miliardi nel periodo 2007-2013 e altrettanti per il periodo 2014-2020) abbia generato benessere “individuale” ma non collettivo. Se poi si entra nel merito e si comincia a spulciare le singole voci non mancano sorprese eclatanti. Un caso per tutti: i 700mila e passa euro spesi dalla Regione Campania per il concerto di Elton John nell’ambito della festa di Piedigrotta. Il primo problema, insomma, è l’estrema polverizzazione dei progetti, senza una vera programmazione e, soprattutto, senza una regia unitaria degli interventi. Abbiamo così comuni che hanno finanziato fontane dove però non arriva l’acqua perché manca la rete idrica. O, ancora, corsi di formazione d’oro: a Palermo si sono spesi oltre 843mila euro per un apprendista. Neanche dovesse andare sulla luna…
Ma non c’è solo l’estrema frammentazione della spesa, legata ovviamente a esigenze clientelari e di gestione del consenso, ad aver trasformato i fondi europei in un clamoroso flop. A sistemare l’Italia agli ultimi posti nella black list dei paesi europei è anche l’estrema lentezza nell’utilizzazione dei fondi. Qui troviamo un altro paradosso. Fra il 2007 e il 2013 l’Ue aveva messo a disposizione circa 21 miliardi per progetti destinati allo sviluppo. Siamo riusciti a spenderne più o meno la metà. Un paradosso in un periodo di così forte crisi economica. Anche qui non è difficile individuare colpe e responsabilità. Prima di tutto bisogna fare i conti con la burocrazia europea che, per alcuni versi, è addirittura più complessa e farraginosa di quella italiana. Tanto che per spendere questa dote bisogna far ricorso a quei pochi professionisti in circolazione che davvero riescono a districarsi nel labirinto delle norme targate Bruxelles.
C’è poi un altro fattore: per ogni euro messo a disposizione dall’Europa ce ne deve uno stanziato dall’Italia. Il fondo nazionale destinato, appunto, a cofinanziare i progetti Ue è stato il primo ad essere tagliato per esigenze di bilancio. Mentre il patto di stabilità interno ha ulteriormente assottigliato le risorse a disposizione delle regioni. Il risultato è che la macchina dei fondi comunitari è andata avanti a singhiozzo e solo negli ultimi tre anni, grazie soprattutto agli interventi di riprogrammazione, c’è stata un’accelerazione della spesa. Ma il rischio di perdere le consistenti risorse a disposizione non è stato ancora superato. Eppure l’Italia resta un contributore netto dell’Europa. Le risorse che ogni anno il nostro Paese destina al bilancio comunitario sono superiori a quelle che tornano attraverso il meccanismo dei fondi europei. Non spendere o sprecare queste risorse equivale, perciò, a un doppio flop. Come a dire: oltre il danno anche la beffa.