Se una donna viene violentata o uccisa, la percezione generale che si ricava dalla lettura della stampa italiana e’ che questo sia un atto che “puo’ capitare” e quasi mai viene messa a fuoco la responsabilita’ del violentatore maschio. Sono questi i principali risultati che emergono dal progetto di ricerca Stereotipo e pregiudizio (STEP): Per un cambiamento culturale nella rappresentazione di genere In ambito giudiziario, nelle forze
dell’ordine e nel racconto dei media. Il progetto e’ coordinato dall’Universita’ degli Studi della Tuscia, in partnership con l’Associazione Differenza Donna ONG, ed e’ stato realizzato con il contributo della Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento per le pari opportunita’ ed i suoi risultati sono stati presentati a Viterbo nel corso della giornata inaugurale dell’anno accademico 2020/21 del Corso di Laurea in Scienze Politiche e delle Relazioni Internazionali (SPRI) dell’Universita’ degli Studi della Tuscia alla quale ha partecipato anche la Ministra per le Pari
opportunita’ e la famiglia, Elena Bonetti.
La ricerca, coordinata da Flaminia Sacca’, presidente del SPRI, ha analizzato come la rappresentazione della violenza contro le donne in due ambiti
discorsivi molto diversi, il linguaggio adottato dai giudici nelle sentenze e il linguaggio utilizzato nella stampa quotidiana, sia caratterizzato dalla presenza strutturale di pregiudizi e stereotipi ricorrenti, radicati nelle aule dei tribunali come nelle redazioni dei giornali. Attraverso un’analisi socio-linguistica su un repertorio di oltre 16.000 articoli e di circa 250 sentenze il gruppo di ricerca ha infatti potuto riscontrare la presenza non episodica di
rappresentazioni della violenza di genere capaci di determinare una seconda vittimizzazione della parte offesa e la tendenza insistita a riprodurre schemi che della figura femminile offrono ancora un’immagine fortemente stereotipata e discriminante. “Ci siamo poste – ha spiegato Sacca’ – il problema di capire l’entita’, le origini e le dinamiche culturali che portano ad una vittimizzazione secondaria della donna, sia in ambito giudiziario, che delle forze dell’ordine, che sulla stampa. Ci interessava comprendere quanto gli stereotipi e i pregiudizi culturali entrassero nei luoghi deputati a difendere le vittime. influenzassero i dibattimenti e le sentenze, gli articoli a stampa. Contribuendo ad una narrazione che rischia di alimentare e
riprodurre gli stereotipi sulle donne, su l’amore malato, sulla gelosia, di fatto finendo con il normalizzare i comportamenti violenti all’interno del rapporto di coppia e, piu’ in generale, tra uomini e donne e rendendo meno responsabile lui e meno vittima lei, perche’ chiamata in correita’ persino quando viene uccisa. Una tendenza questa che rischia poi di contribuire a riprodurre anche i comportamenti criminosi”.
Un primo dato che balza agli occhi, avendo analizzato 16.715 articoli di 15 diversi quotidiani per gli anni 2017, 2018, 2019 e’ che, “secondo la narrazione prevalente – ha chiarito Sacca’ – la violenza alle donne sembra capitare in modo astratto, al limite si inserisce all’interno di un dispositivo logico di normalizzazione della violenza nell’ambito familiare/relazionale. Viene raccontata come una fatalita’ senza un chiaro colpevole. Se andiamo a vedere la Word Cloud di tutti e 16.715 articoli, le parole piu’ ricorrenti sono donna, donne, violenza. Ma il colpevole della violenza non e’ a fuoco. L’uomo violento, assassino, colpevole e’ il grande assente di questa narrazione”. “Un altro dato che emerge dalla ricerca – ha aggiunto – e’ la soggettivita’ negata delle donne e i numeri sommersi della violenza. La soggettivita’, l’individualita’ femminile vengono messe in crisi non solo ogni volta che un uomo le aggredisce, le picchia, da’ loro fuoco, le uccide in seguito ad una richiesta di separazione. Questi sono casi estremi anche se purtroppo molto meno rari di quanto legge, decenza e civilta’ vorrebbero. Ma anche in forma piu’ sottile ogni volta che ad un uomo con la terza
media si da’ del “dottore” e ad una donna con il dottorato si da’ della “signora”. Che ci si riferisce nello stesso contesto ad un uomo con il suo titolo di studio nonche’ con il cognome e alla donna solo con il nome, come a ridimensionare il suo status di persona adulta e autonoma. Caso questo non infrequente anche in sede giudiziaria, quando la donna, la vittima, viene chiamata familiarmente, infantilmente, con il nome mentre magari al carnefice ci si riferisce con il titolo, “l’ingegnere” ad es., come emerge dalla nostra analisi linguistica delle sentenze”.
“I primi risultati della ricerca – specifica Sacca’ – infatti attengono alla chiara, evidente, mancanza di cittadinanza delle donne vittime di violenza nel dibattito pubblico, ma soprattutto nella coscienza e nella iniziativa istituzionale. Dispiace dirlo ma c’e’ ancora molto, moltissimo da fare. Ci sono ovviamente sforzi immani condotti con grande forza, lungimiranza e determinazione dai centri antiviolenza, dai movimenti femministi, da giornaliste che hanno contribuito alla sensibilizzazione sul tema, ma serve una forte iniziativa istituzionale”. Uno dei motivi che non permettono la completa
emersione e comprensione del fenomeno e’ legata alla mancanza di dati che riescano a darne piena contezza.
“I dati relativi alla violenza di genere – ha spiegato ancora la Presidente del Corso di Laurea in Scienze Politiche dell’Universita’ la Tuscia – sono difficili da reperire, parziali, le analisi non aggiornate. L’ottimo rapporto ISTAT in materia risale al 2014. Grazie a quel rapporto si e’ avuto un certo
battage sulla stampa, Si e’ lanciato un grido di allarme: quasi un terzo (31,5%) delle donne italiane di eta’ compresa tra i 16 e i 70 anni ha subito una qualche forma di violenza. Un numero elevatissimo. Un’emergenza sociale che non sembra essere stata compresa appieno e affrontata in quanto tale. Si e’ calcolato che di questo 31, 5% solo circa il 10% denuncia. Una goccia nel mare. E quando denuncia poi che succede? Quante volte si da’ seguito alla denuncia e quante invece il processo si arena per un “non luogo a procedere” lasciando ancora piu’ sola e piu’ esposta la donna? L’Italia e’ stata sanzionata da Strasburgo perche’ i non luogo a procedere sono troppi vedi, per esempio il caso Talpis. Il Consiglio d’Europa ha appena espresso
preoccupazione per il perdurare di questa situazione, come e’ giusto”. Dalla ricerca sono poi emersi anche altri aspetti. Le donne hanno maggiori possibilita’ di venire credute e di ottenere giustizia quando al loro fianco hanno i centri antiviolenza, con la loro rete di avvocate esperte e di sostegno specializzato. “Questo – dice Sacca’ – emerge chiaramente dalla nostra analisi. Ma ancora non esiste un database ampio, certo, affidabile, disponibile, aggiornato, delle denunce, dei non luogo a procedere, delle sentenze di primo e di secondo grado. Noi abbiamo potuto analizzare 4 repertori di
sentenze. Si tratta di repertori parziali e urge la costruzione di un database esaustivo, ma sono significativi. Dimostrano come i pregiudizi e gli stereotipi entrino, nel bene e nel male, nei processi. Per cui l’immagine della donna, della vittima, non si esaurisce nei fatti ma e’ connotata culturalmente, per cui questa e’ di volta in volta: affidabile, esasperante, angelicata, ingenua, disinvolta, in buona o cattiva fede… E il suo comportamento viene sottoposto a giudizio, a volte tanto quanto quello dell’uomo, che e’ l’imputato. Ci si spinge a definirlo improprio, lo si ritiene
“logicamente” atto ad indurre l’uomo (che l’ha ammazzata, o stuprata o massacrata di botte) ad esasperazione. Quindi – conclude la ricercatrice – anche da morta, da vittima, e’ spesso il suo comportamento a venire sottoposto a lente d’ingrandimento. Al giudizio. Sono questi i pregiudizi e gli stereotipi che occorre scardinare per rimettere a fuoco il fenomeno, per poter chiamare le cose con il loro nome: le vittime, vittime e i colpevoli,
colpevoli”.
(AGI)