di LAURA BERCIOUX
Milioni di ebrei, zingari e omosessuali, persero la vita nei campi di concentramento: nel 2000 è stata indicata la Giornata della Memoria e il mondo ricorda i tragici eccidi compiuti dai nazisti. Con Fabrizio Gallichi, già rappresentante della comunità ebraica, proviamo a tracciare un bilancio su questa giornata. “Un bilancio drammatico, visto da una prospettiva ebraica: la ricorrenza diventa sempre più il contrario di ciò che ci si aspettava. Credo sia l’effetto di una scelta nascosta nel nome stesso della giornata. E’ errato il richiamo alla memoria, che è la capacità di ricordare ma non il ricordo: è come se celebrassimo la possibilità di aprire ogni anno un cassetto e tirarne fuori i ricordi, per poi celarli per altri 364 giorni. Che si tratti di una icona, di un rito auto assolutorio lo dimostra il fatto che le nostre società (quelle che furono coinvolte dal conflitto e dal tentativo di cancellare gli ebrei ed altre minoranze e specificità) non mostrano alcuna attenzione ai continui segnali di nuove tragedie. L’esito infelice della celebrazione dipende anche dai tanti, troppi, ebrei disponibili a fare la parte della vittima di fronte ad un pubblico che li ama solo se morti o sottoposti a privazioni. Partecipare alle manifestazioni ove presenzia un dichiarato nemico dello stato ebraico è colpevole condiscendenza, io direi alto tradimento”.
Con il consolidarsi dell’annuale celebrazione della apertura dei cancelli di Auschwitz, c’è un’evidente crescita dell’antisemitismo…
“Mentre la celebrazione della memoria si consolida come ripetizione sempre più scontata – al punto che già si intravedono i “professionisti della Shoà”- l’antisemitismo si manifesta in maniera sempre più palese. L’odio verso gli ebrei, anticipatore di ogni altra intolleranza, è un male “comodo” poiché individua nel più piccolo e, una volta, inerme popolo il capro espiatorio di ogni male, come si faceva con le streghe oppure, oggi, con le scie chimiche. L’occidente non ricorda che dopo gli ebrei toccò, e sarebbe toccato, ad altri, in una spirale di sangue che solo una cura decisiva e drastica può interrompere. Non è un caso che i simboli del califfato e quelli del nazismo si assomiglino nella celebrazione della morte e che l’amore per la vita non abbia simboli nella sua universalità”.
La sproporzione tra l’attenzione dell’occidente alle azioni israeliane rispetto a quella dimostrata verso i tanti eccidi in varie parti del mondo, fa crescere l’antisionismo?
“Negare ad uno specifico popolo, titolare di riconosciuta specificità storica e linguistica, la propria espressione nazionale è folle prima che ingiusto ed antistorico. Tale negazione ha prodotto un corto circuito che rende, nel caso mediorientale, difficoltosa ogni mediazione, ma l’occidente appare non comprenderlo. Il protestare verso una sola delle parti di un singolo conflitto e non farlo per altre più nefaste contrapposizioni, guerre e lotte intestine, non è fare azione di pace, ma parteggiare, essere soggetti in conflitto. La disparità di reazione verso la sofferenza dimostra la falsa coscienza, una tendenza all’antisemitismo più che evidente. Sul tema mediorientale il non prendere posizione sulla base di una consapevolezza storica, restare irresponsabili configura la medesima colpa di quanti furono contemporanei della Shoà e nulla fecero”.
Qual è il rapporto tra educazione alla tolleranza e alla responsabilità che si evidenzia con la memoria della Shoà?
“La tolleranza non è un valore, lo è la responsabilità reciproca. Dobbiamo insegnare ogni giorno e, particolarmente il 27 gennaio, che i nostri pensieri, le nostre parole e le nostre azioni debbano rispondere e misurarsi criticamente con l’obiettivo di praticare reciproca responsabilità sul piano privato e pubblico. Al di fuori di tale prospettiva non vi è insegnamento duraturo”.
Orrori, stermini di genere, pulizia etnica, terrorismo, la nostra civiltà è appare sotto un attacco: l’esperienza della seconda guerra mondiale è servita?
“No, la vicenda Ucraina, tra le altre, lo dimostra inequivocabilmente e non solo nella dinamica tra i due paesi coinvolti, ma anche nella codardia che l’Europa manifesta. Si tratta sempre della medesima storia, faccio finta di niente, sto zitto, godo di piccoli vantaggi nella speranza che il male non mi colpisca. Ogni piccola concessione a ciò che è inaccettabile è la premessa a qualcosa di peggio. L’occidente è quotidianamente colpevole per accidia e complicità di fatto per ogni donna infibulata, per ogni omosessuale lanciato nel vuoto, per ogni bimbo cui è negata l’istruzione, il gioco e la gioia, per ogni bambina violentata dal proprio “marito”, per ogni bomba, minaccia, paura, per i giornalisti, i cineasti, gli artisti minacciati e mortificati. Non mi pare che le tragedie del passato costituiscano riferimento critico, mancando tale capacità ed esercizio il nostro destino potrebbe essere segnato”.
Il Sud Italia già conobbe una forma di Shoà
“La cacciata degli ebrei all’inizio dell’era moderna fu una enorme tragedia di cui gli eredi delle vittime ancora portano il ricordo. Di recente il presidente della Campania, Stefano Caldoro, ha istituito un giorno del ricordo (non memoria) di quell’evento che costò dolore per i cacciati e rappresentò sottrazione di futuro per i popoli che si privavano degli ebrei. Purtroppo nell’industria della Shoà l’ebreo, generalmente, appare disposto a recitare la parte dell’oggetto del ricordo, ad essere individuato per ciò che ha subito e non per ciò di unico e meraviglioso con il quale ha dato contributo essenziale ed indispensabile a ciò che tutti noi siamo. Purtroppo le istituzioni ebraiche nel confermare questo piccolo cabotaggio che è, invece, un tradimento e svilimento della storia del popolo che vorrebbero rappresentare, sono corresponsabili della banalizzazione della memoria. Oggi come ieri il terrore, la guerra alla giustizia ed al diritto si nutre della falsa coscienza, dell’ipocrisia, della vigliaccheria di quanti prima o poi, pur facendo finta di non vedere, saranno vittime. Di fronte a tale situazione da tardo impero, da medioevo, a nulla valgono celebrazioni che assomigliano sempre più a rituali ripetitivi”.