Il caso British Steel-Jingye approda a Roma. Come confermano fonti governative, all’inizio della settimana l’Esecutivo incontrerà i consulenti di Ernst&Young che hanno lavorato alla proposta di acquisto arrivata dalla società cinese all’azienda siderurgica britannica, molto simile all’ex Ilva per le criticità societarie e ambientali. Dallo scorso maggio era finita in amministrazione straordinaria, con perdite calcolate in un milione di sterline al giorno. Al Governo sarà illustrato l’accordo provvisorio, reso noto lunedì ii novembre e in attesa dell’approvazione dei regolatori: un affare da 70 milioni di sterline, con l’impegno di Jingye a investire 1,2 miliardi di sterline nel prossimo decennio e di salvare migliaia di posti di lavoro, dietro garazie finanziarie del Governo di Boris Johnson. L’appuntamento è per il momento soltanto interlocutorio, ma introduce in maniera indiretta l’ipotesi di un interessamento dei cinesi al destino dello stabilimento di Taranto. Il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, era proprio in Cina quando è scoppiata la bomba Ilva. Durante gli incontri non aveva negato di aver riscontrato interesse, ma al rientro aveva detto ai microfoni di Radio24: «Se mi chiedete se abbia cercato di piazzare Ilva ai cinesi la risposta è no. C’è Mittal e non possiamo permettere che se ne vada». Si apprende intanto che potrebbe tenersi mercoledì prossimo il nuovo incontro fra i Mittal e il presidente del Consiglio. Nonostante sia andato male il confronto del governo con l’amministratore delegato Lucia Morselli un esile filo di trattative è ancora in piedi e solo con un incontro diretto fra Giuseppe Conte e la proprietà di ArcelorMittal si può verificare se esistano ancora delle speranze, anche con l’intervento di una partecipazione pubblica, quindi con la costituzione di una società mista, per salvare gli stabilimenti dell’ex IIva. È solo una delle ipotesi, e nemmeno tanto forte, perché nel governo nessuno è in grado di dire al momento, se i Mittal abbiano voglia di fare un passo indietro, magari anche con un ricorso massiccio alla cassa integrazione ma non certo per 5.000 esuberi, come ventilato nel primo incontro due settimane fa.