Politica interna
Pd, anche l’alleanza con i centristi rischia di saltare. Mentre il caso Bonino sembra ancora lontano da una soluzione, per la gracile coalizione attorno al Pd si apre un nuovo fronte: i legali della Margherita hanno diffidato la lista centrista guidata da Beatrice Lorenzin dall’utilizzo «indebito» del simbolo floreale. «Se lo usano, facciamo decadere la lista», spiegano. Lorenzo Dellai, co-fondatore dei Civici popolari con la ministra della Salute, però, assicura: «Noi abbiamo un simbolo del 1998 totalmente diverso da quello della Margherita nazionale, nata nel 2001. Non è confondibile, ed è stato già utilizzato in altre occasioni». I liquidatori del partito che nel 2007 conflul nel Pd però insistono, con il via libera di Francesco Rutelli e Enzo Bianco: «Quel simbolo usato a livello locale – si legge nella diffida – è totalmente precluso dall’utilizzo alle elezioni politiche». Fonti vicine alla Lorenzin, e lo stesso Dellai, negano l’ipotesi di un divorzio dal Pd, che pure sta circolando tra gli ex alfaniani: «Vogliamo stare nel centrosinistra». Un’altra grossa grana per i dem è il rapporto con la lista ” Europa” di Emma Bonino, che, nonostante gli auspici del segretario Renzi («speriamo di risolvere i problemi burocratici sulla raccolta firme»), sembra avviata verso la corsa solitarla. «Le raccoglieremo tutti insieme anche in pochi giorni», assicura Ettore Rosato. Ma Bonino ha già fatto sapere di non volere aiutini ad personam: è la legge che va cambiata. «I tempi sono stretti, dobbiamo iniziare a raccogliere le firme per tutti i collegi uninominali – spiega Benedetto Della Vedova – non possiamo aspettare che il Pd definisca i candidati, rischiamo di restare fuori». Oggi pomeriggio, in conferenza stampa, i radicali ribadiranno che il problema persiste, sempre lo stesso che li costringe ad avviare la campagna autonoma di raccolta delle firme. Diranno che al momento la partita è chiusa. Ma, così almeno hanno promesso a Fassino, non tireranno la corda fino a spezzarla: «Noi un accordo l’abbiamo sempre voluto – ha spiegato Della Vedova all’ex sindaco di Torino – ci abbiamo investito un anno di lavoro, ma dovete aiutarci». Già, un accordo. Matteo Renzi ne ha bisogno, ma preferisce tenersi fuori dalla contesa pubblica. Il leader del Pd delega Maurizio Martina e Fassino a trattare con la lista europeista. Anche Carlo Calenda si è messo in mezzo, per sollecitare un’intesa: «Emma è pilastro fondamentale dell’alleanza riformista liberal democratica che serve all’Italia». A Renzi, il ministro chiede di «sedersi intorno ad un tavolo e trovare una soluzione: è doveroso». Al momento, però, il segretario dem rimanda tutto agli ambasciatori.
Raggi a processo dopo il voto. Sito M55 in tilt: troppi candidati. Una mossa che prova ad allontanare il «caso Roma» dalla campagna elettorale ed evita al sindaco Raggi l’impatto mediatico dell’ormai inevitabile rinvio a giudizio. Ieri, i suoi avvocati, Alessandro Mancori ed Emiliano Fasulo, hanno fatto istanza di giudizio immediato: se il gup Raffaella De Pasquale sarà d’accordo (ha cinque giorni per rispondere) la prima cittadina andrà a processo per falso senza passare per l’udienza preliminare. «Desidero che sia accertata quanto prima la verità giuridica dei fatti, sono certa della mia innocenza», ha scritto su Facebook. Dunque, tutto rinviato, a meno che il gup non valuti la posizione di Raggi connessa «profondamente» con quella dell’ex braccio destro, Raffaele Marra, che ha scelto il rito ordinario, e respinga l’istanza. La strategia, individuata negli ultimi giorni e concordata coi vertici del Movimento, di certo allunga i tempi e prova a depotenziare l’intera vicenda: se l’istanza sarà accolta, il processo si aprirà certamente dopo la scadenza elettorale (pare entro maggio, ma i dati del tribunale di Roma parlano di udienze fissate mediamente un anno dopo il decreto del giudice). Intanto sul fronte candidature da segnalare che il sito dei 5 Stelle è andato in tilt con tanto di proroga di qualche ora per permettere agli iscritti di formalizzare le candidature alle primarie pentastellate. La giornata che di fatto apre la selezione delle cosiddette Parlamentarie si tinge di giallo per il Movimento. Sul blog di Beppe Grillo spiegano: «Le autocandidature per le parlamentarie sono un successo. Tantissime persone stanno partecipando a questa prova di democrazia». Luigi Di Maio, in tour elettorale a Trieste, gongola: «Per noi oggi come 5 Stelle è un grande giorno». E commenta: «Saranno parlamentari che dovranno rispettare regole ferree, non potranno cambiare casacca, dovranno tagliarsi lo stipendio, dovranno portare avanti le politiche del programma». Ma sul sito del Movimento tra la base — nelle ore che precedono la chiusura dei termini per presentarsi — monta la preoccupazione. Carlo da Pavia scrive: «In tre giorni non sono riuscito a candidarmi». Giuseppe Esposito attacca: «Così non è corretto però signori». Ma uno dei pretoriani di Di Maio, Alfonso Bonafede, contesta: «Stop alle solite fake news. Non esiste alcun malfunzionamento».
Politica estera
Iran, l’annuncio dei Pasdaran: «La rivolta è stata domata». La rivolta in Iran «è stata domata». Così almeno sostengono i Pasdaran, i potenti Guardiani della rivoluzione islamica, tornati ieri prepotentemente in scena dopo una settimana diproteste in cui avevano tenuto un profilo basso, quantomeno sul piano mediatico.«I nemici sappiano che non ci sono più minacce alla sicurezza iraniana»,ha dichiarato ieri il capo dei pasdaran Mohammed Ali Jafari, dopo che le milizie scelte del corpo rivoluzionario erano state schierate in tre province per sedare una protesta – la più massiccia dal 2009-che ha fatto più di venti morti e portato all’arresto di un migliaio di persone. Difficile verificare se il quadro sia davvero tornato tranquillo, visto che in serata è arrivata la notizia di tre membri delle forze di intelligence iraniane uccisi. Quello di Jafari è stato un avvertimento a 360 gradi: innanzitutto ai manifestanti “non politicizzati”, i poveri diseredati scesi in piazza per disperazione. Poi a chi li aveva aizzati provenendo dalla destra dello schieramento politico, uomini vicini all’ex presidente Ahmadinejad, che Jafari stesso nelle sue parole ha individuato come «un ex responsabile politico già sotto inchiesta». I pasdaran segnalando la fine di un periodo di incertezza, fanno capire all’Iran e al mondo di essere pronti al tutto per tutto. Ovvero ad usare le armi, anche le armi pesanti, per fermare la protesta.
L’incertezza sullo scacchiere iraniano ha spinto il presidente francese Emmanuel Macron a rinviare la visita a Teheran del ministro degli Esteri Jean-Yves Le Drian, prevista nel fine settimana. Intervistata della Stampa Shirin Ebadi, attivista e Nobel per la Pace si dice convinta che nell’immediato il regime finirà per imporsi, come sempre. Ma, sostiene, l’impalcatura scricchiola. Guai a celebrare troppo presto il requiem della piazza. «Quanto accade oggi l’abbiamo visto anche ieri, l’onda verde nel 2009 o, prima, i moti studenteschi del 1999. La peculiarità stavolta è il coinvolgimento di tutto il Paese, finora ci sono state manifestazioni quotidiane in oltre 50 città». «E difficile dire fin quando la gente andrà avanti perché non ci sono leader, si tratta di una protesta esplosa in modo spontaneo. L’assensa di leadership però logora il movimento, è un punto debole, fiacca il popolo. Potranno resistere in strada un mese, due, ma a meno di ottenere quanto chiedono a un certo punto dovranno arretrare. Saranno repressi, ma attenzione: il fuoco arde sotto la cenere».
Bannon contro Trump. La replica del presidente: «Ha perso la testa». È scontro aperto tra il presidente americano Donald Trump e il suo ex consigliere, Steve Bannon, che in alcune anticipazioni del Guardian su un nuovo libro del giornalista Michael Wolff rilancia alla grande il Russiagate definendo «sovversivo» e «antipatriottico» l’incontro avvenuto alla Trump Tower tra il figlio del tycoon e un avvocato russo, da cui Donald Jr. si aspettava di ottenere informazioni che danneggiassero la rivale di Trump, Hillary Clinton. «Bannon non ha niente a che fare con me o con la mia presidenza – ha fatto sapere Trump in un comunicato affidato alla portavoce Sarah Sanders – quando l’abbiamo licenziato non solo ha perso il lavoro, ha perso anche la testa», ha tuonato il presidente. Nel libro “Fire and fury”, in uscita negli Stati Uniti la prossima settimana, Wolff si è basato su oltre 200 interviste con lo stesso presidente, il suo entourage e una serie di vip fuori e dentro l’amministrazione. «Tante falsità», secondo la Casa Bianca. Gli stralci su Bannon, che ieri hanno fatto la parte del leone, hanno attirato l’ira del presidente: «Ha avuto poco o niente a che fare con la nostra vittoria. Non rappresenta la mia base e ha passato il suo poco tempo alla Casa Bianca a provocare false fughe di notizie». Nel libro l’ex stratega usa metafore forti e un linguaggio da caserma per descrivere il clima della presidenza Usa, la cui indifferenza al potenziale impatto del Russiagate sarebbe paragonabile a quella di «chi sta sulla spiaggia aspettando l’impatto di un uragano di categoria cinque». Classe 1953, ex banchiere Goldman Sachs, giornalista, dirigente politico e fervente nazionalista, Bannon si era rivelato decisivo per la vittoria di Trump, anche se ieri il presidente ha tentato di minimizzarne il ruolo. Alla Casa Bianca era stato incoronato chief strategist e lo si vedeva sempre nello Studio ovale. Ma poi le sue posizioni estreme, una aperta rivalità con Ivanka e Kushner e l’arrivo del generale John Kelly lo hanno costretto ad andarsene. A dispetto dell’estromissione dalla camera dei bottoni e della brutta figura in Alabama, Bannon continua a far parlare di sé. E nel colloquio con Wolff attacca l’entourage di Trump. Riferendosi sempre all’incontro del giugno 2016, dice: «Ma come? Pensavano veramente, quei tre più stretti collaboratori di Trump (Donald Jr, Kushner e Manafort, ndr), che fosse una buona idea incontrare un governo straniero alla Trump tower senza neanche un avvocato? Avrebbero dovuto avvertire subito l’Fbi e semmai organizzare la riunione in un motel del New Hampshire mandandoci i legali…».
Economia e Finanza
Banche, rush finale sui prestiti low-cost. Ultime quattro settimane di tempo per la concessione del credito a «sconto» alle imprese da parte delle banche italiane che, essendosi finanziate con le aste Tltro2 della Bce, puntano a incassare il previsto tasso negativo dello 0,4%. Il prossimo 31 gennaio 2018 scade infatti il termine ultimo per utilizzare i prestiti di Bce come impieghi creditizi alle imprese. Sulla restante parte della liquidità ottenuta dalla banca centrale europea, il tasso di finanziamento sarà pari a zero. «Il momento è magico per investire, in questa fase abbiamo i tassi più bassi d’Europa – ha commentato poche settimane fa il presidente dell’Abi Antonio Patuelli – è un momento oggettivamente irrietibile perché i tassi Bce non saranno più così bassi». Nelle quattro aste Tltro2 le banche italiane avevano richiesto complessivamente, secondo le stime degli analisti, quasi 100 miliardi di euro (in piccola parte già rimborsati). L’importo più significativo era stato richiesto nell’ultima asta del marzo 2017 quando nelle casse delle banche italiane erano arrivati da Bce ben 62,8 miliardi di liquidità. Quanta parte della liquidità, che le banche dovranno poi rimborsare a Bce entro il 2021, andrà davvero alle imprese? I dati puntuali si avranno solo a maggio quando le banche invieranno alle Autorità di Vigilanza il cosiddetto «reporting template» insieme alla certificazione dei revisori che dovranno attestare l’effettivo utilizzo dei finanziamenti per la concessione di prestiti alle imprese. Nell’ultimo bimestre del 2017, secondo fonti bancarie, si sarebbe registrato un’aumento dell’offerta di credito che ha portato alla riduzione degli spread alla clientela migliore. Il vero fenomeno dell’anno appena passato è quello dei Pir, i Piani individuali di risparmio introdotti proprio 12 mesi fa con la Legge di Bilancio. Per stilare un bilancio definitivo della raccolta 2017 occorrerà attendere ancora qualche giorno, ma è molto probabile che l’asticella dei 10 miliardi di euro indicata dagli analisti (e dallo stesso Ministero delle Finanze) già a metà anno sia stata superata. I Pir, scrive Marco Giorgino sul Sole 24 Ore rappresentano un’occasione che, però, ha bisogno di essere gestita “con responsabilità e con attenzione per non sprecare l’enorme potenziale che i Pir hanno: il che richiede almeno tre condizioni: un’attenta identificazione da parte degli intermediari delle imprese su cui allocare le risorse raccolte, una responsabile ricerca di risorse da parte delle imprese per progetti seri e concreti di crescita e di innovazione, un’accurata selezione da parte dei risparmiatori del prodotto Pir più adeguato”.
Aumenti in arrivo per gli statali. E intanto Renzi rispolvera il salario minimo. Sindacati della scuola e Aran, l’agenzia che rappresenta il governo, torneranno a incontrarsi questa mattina per stringere i tempi del rinnovo del contratto che riguarda circa 1,2 milioni di lavoratori tra docenti, ricercatori e altro personale dei settori scuola, università, ricerca e Afam (conservatori e accademie). II ministro della Pubblica istruzione, Valeria Fedeli, assicura che «le risorse ci sono». Ma nel primo incontro che c’è stato martedì sono invece emersi problemi nel garantire almeno 85 euro di aumento dei minimi mensili di retribuzione a tutti i lavoratori, come è stato fatto con il primo contratto dei dipendenti pubblici concluso il 23 dicembre per gli statali. «Quota 85» rappresenta per i sindacati la condizione imprescindibile per rinnovare tutti gli altri contratti del pubblico impiego. II punto è che mentre il primo, quello degli statali appunto, ha riguardato «solo» 240 mila dipendenti (di ministeri, agenzie fiscali, enti pubblici non economici, Cnel), i restanti tre grossi contratti, interessano circa tre milioni di lavoratori. Oltre a quello della scuola ci sono quello della sanità e degli enti locali. A questi si aggiungeranno i contratti della dirigenza, delle Forze dell’ordine e dei Vigili del Fuoco. I sindacati vorrebbero concludere il prima possibile gli altri contratti. Anche il governo spinge in questa direzione, ma gli ostacoli sono impegnativi. Intanto torna d’attualità in casa Pd l’idea di un salario minimo legale. Ci sta lavorando Tommaso Nannicini, l’uomo che sta scrivendo il programma elettorale del partito. Una prima risposta all’appello del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella affinché i partiti si concentrino sul tema del lavoro. Che certo non trova impreparato il segretario Pd Matteo Renzi. «È una proposta, il salario minimo, alla quale tengo molto», scrive nella sua e-news. Una di quelle che verrà discussa nella prossima direzione del Pd e che ieri è stata anticipata da Tommaso Nannicini.Non sarà però sul modello del reddito di cittadinanza in stile M5S. Sarà per i lavoratori tanto per iniziare, il che traccia una differenza non da poco. Non soldi a pioggia, ma per far crescere chi da occupato, il lavoro l’ha perso.