Antonio Troise
Non siamo un “Paese per giovani”. Ma anche come “Paese per vecchi” lasciamo a desiderare. Tutto merito (si fa per dire) della riforma Fornero e dell’innalzamento repentino dell’età pensionabile. E, dal primo gennaio prossimo, le regole saranno uguali per tutti: uomini e donne potranno lasciare il lavoro solo a 66 anni e 7 mesi. Quota che salirà a 67 anni tondi tondi nel 2019. Il meccanismo alla base della riforma non fa una piega. Le pensioni hanno da tempo perso la loro caratteristica puramente “assistenziale” e sono diventate, con il sistema contributivo, un prodotto “finanziario”: si recupera nella vecchiaia quello che si è accumulato durante il periodo lavorativo. Quindi, se aumenta l’età media degli italiani si restringe, automaticamente, il grado di copertura delle somme versate all’Inps. L’alternativa è quella di far di nuovo saltare i conti pubblici alimentando il debito. Cosa che, obiettivamente, non possiamo più permetterci.
Ma una riflessione su un sistema che ha portato l’Italia ad avere l’età pensionabile più alta d’Europa forse andrebbe fatta. Non è certo un caso se perfino la lady d’acciaio, Angela Merkel, ha accettato le proposte avanzate dai socialisti di una riduzione dell’età pensionabile. La Germania non ha il debito che ci portiamo sul groppone. Ma dietro la disponibilità della cancelliera c’è anche un Paese che scommette su se stesso e che non vuole frenare il “turn over generazionale”, distruggendo sul nascere occasioni di lavoro. Si dirà che il lavoro si crea, soprattutto, con la crescita economica e con gli investimenti. Ma è davvero difficile convincere un lavoratore che, dopo aver oltre versato anni e anni di contributi all’Inps, togliendoli dalla busta paga, non sia arrivato il momento di godersi la pensione e lasciare il suo posto ad un giovane o ad un disoccupato. C’è qualcosa che non funziona in una riforma che si è limitata a mettere in sicurezza i conti senza considerare tutti gli altri aspetti del problema, da quelli economici a quelli più squisitamente sociali.
Insomma, servono correttivi in grado di assicurare la giusta “flessibilità” al sistema. Da questo punto di vista, l’Ape, l’anticipo fino a 4 anni prima dell’età pensionabile con una rata che può pesare fino al 4,6% sull’assegno Inps, è sicuramente un primo passo. Ma non sufficiente per risolvere i problemi che la riforma Fornero ha lasciato in eredità sia agli uomini e alle donne che, dal 2019, andranno in pensione a 67 anni sia ai giovani che, nel 2050, potranno lasciare il lavoro solo a 75 anni. Per di più, con assegni da fame visto che durante la loro vita lavorativa difficilmente troveranno un lavoro stabile. Quello, con le regole attuali, continuerà ad essere occupato da qualcuno più anziano. Con la buona pace del ricambio e della produttività.