di Alessandro De Stefano –
Bagnoli è il simbolo di tutte le incompiute della città. Ed ora, con la messa in liquidazione di Bagnolifutura, è anche la metafora più eloquente del flop della rivoluzione arancione di de Magistris. L’Italsider era il sogno di una città che voleva diventare industriale e moderna. Dopo più di vent’anni, l’ultimo sussurro del suo altoforno si è trasformato in una dismissione infinita.
Ma che cosa è successo? Cerchiamo di capire che cosa non funzionato.
Bonifiche e affari
Il progetto, sulla carta, era semplice: una società (controllata al 90% dal Comune e per la quota restante da Provincia e Regione) acquista i suoli ex Iri (per un’ottantina di milioni), li bonifica e li mette sul mercato restituendo ai napoletani un pezzo di città prima occupata dalla grande fabbrica e poi dall’incuria e dai veleni che nel frattempo si sono accumulati nel sottosuolo e sulla colmata. Dopo due decenni, la bonifica è stata completata più o meno al 65%. Sono state realizzate una serie di opere (il Parco dello Sport, l’Acquario tematico e la Porta del Parco) che sono altrettanto cattedrali nel deserto, dal momento che pur essendo ultimate sono inutilizzabili e, soprattutto, già degradate.
L’inchiesta giudiziaria
Come se non bastasse, i lavori realizzati sono finiti nel mirino dei giudici: nessuno, oggi, può effettivamente garantire se quell’area sia effettivamente salubre o se, invece, i “veleni” industriali accumulati negli anni siano ancora dannosi. Nessuno ce lo può dire con certezza: i criteri utilizzati per la bonifica non hanno tenuto conto della destinazione delle aree (ancora, per lo più, da definire). Una cosa è bonificare un terreno dove sorgerà una fabbrica un’altra, ovviamente, dove crescerà un parco giochi. Sembra banale, ma nessuno ci ha pensato. C’è poi un altro aspetto inquietante: la confusione di ruoli fra chi “controlla” e chi doveva invece essere “controllato”. Uno fra tutti: la Provincia che doveva emettere il “verdetto” sui lavori di bonifica siede anche nel Cda di Bagnoli Futura, la società che appalta i lavori. A fare il resto ci ha pensato il sindaco che ha chiesto a Fintecna di mettere subito in sicurezza l’intera area. A questo punto, la società ex Iri, ha bussato alle casse di Bagnolifutura (cioè del Comune) battendo cassa e portando, di fatto, la società di Palazzo San Giacomo al fallimento e alla messa in liquidazione. Un destino già segnato.
Domande senza risposte
1) In vent’anni, dall’ultima colata del 93, Bagnoli Futura ha accumulato debiti per oltre 250 milioni. Con chi? Semplice: con gli istituti di credito ai quali ha dato in garanzia i suoli. Risultato: oggi le banche, nei fatti, sono praticamente le proprietarie dell’intera area e, in linea teorica, potrebbero mettere in vendita i terreni per recuperare le somme prestate. Ma chi acquisterà mai terreni sui quali indaga la magistratura, che non hanno ancora una destinazione precisa dal punto di vista urbanistico e, soprattutto, rischiano in una fase economica così delicata, di essere svenduti?
2) Con Bagnolifutura in liquidazione e le aree “pignorate” dagli istituti di credito, chi vigilerà sul destino di una delle zone strategiche della città? Chi pagherà gli oltre 250 milioni di debiti accumulati dalla società? Che fine faranno i 61 dipendenti della società?
3) Senza risorse adeguate, chi smaltirà in maniera corretta i veleni che i magistrati sospettano siano stati semplicemente sepolti sotto uno strato sottile di terreno? Quanti anni saranno ancora necessari per dare una speranza di risanamento e di sviluppo ad un’area così importante per Napoli?
Quali soluzioni
Come se ne esce? Le risposte non sono né semplici né scontate. Bagnoli sconta l’errore iniziale di aver chiuso il perimetro della bonifica in un ambito, per così dire, “locale”, affidandosi solo sulla forza del Comune e senza il coinvolgimento né di attori nazionali né di privati. Ora, forse, è davvero fuori tempo massimo pensare di coinvolgere il governo centrale per recuperare un progetto che ormai è definitivamente fallito. Bisogna, insomma, azzerare tutto, tornare a vent’anni fa, restituire i suoli acquistati da Fintecna (la società che aveva in portafoglio le aree dei vecchi stabilimenti) e, soprattutto, cercare di coinvolgere i capitali privati in un nuovo progetto di risanamento e di rilancio, magari con il coinvolgimento degli istituti di credito.
La strada è stretta, la crisi economica non incoraggia grandi investimenti, gli enti locali non hanno più risorse da mettere in campo, soffocati come sono dai vincoli del patto di stabilità. Ma senza un piano concreto, in grado di definire il destino dell’area, garantendo trasparenza sia nei bandi che nei progetti, difficilmente Bagnoli potrà tornare a vivere.