di Pino Aprile

Abbiamo voluto rappresentare questo giorno con l’immagine dei delfini che cavalcano le onde dinanzi alla “cartolina” di Taranto: il canale che collega mar Grande a mar Piccolo, sovrastato dal ponte girevole, che poggia su una spalla del castello aragonese.

Avevo cinque anni quando passai sul ponte, la prima volta, con mia madre. Avevo paura: non ero mai stato così alto e precario sul mare. E il ponte era di legno, allora; c’era un vento fortissimo, camminavamo piegati in avanti e sentivo il ponte oscillare (non so neppure se lo facesse davvero o a me pareva che lo facesse).

Taranto era bellissima, lo è ancora, pur così offesa. Ma non lo sapevo che era bellissima: se non hai un termine di riferimento, non puoi valutare le cose. E Taranto era l’unica grande città che avessi mai visto. E mentre sentivo parlare con ammirazione di altre (non solo Roma, Napoli, Venezia), non ascoltavo niente di simile per Taranto o per Gioia del Colle (dove sono nato). Il che, a me bambino, insegnava che il meglio era altrove.

E mi pareva normale avere spiagge profonde, bellissime, a portata di mano, confinanti con pinete immense, attraversate da fiumi carsici; o dall’altra parte della città, verso sud-est, costa rocciosa interrotta da calette, fiordi, piccole spiagge; o avere le acque gelide e potenti della sorgente del fiume Galeso a due passi da casa o quelle frizzanti del Chidro, più in là, dopo Manduria.

Mi pareva normale poter scendere a fare il bagno direttamente in città, sul lungomare, di fronte alle isole Cheradi, irraggiungibili perché militari, quindi sognabili, non visitabili; o tuffarsi per andare a bere sott’acqua, dalle tante polle di acqua dolce che sfociano sul fondo marino.

Poi, cominciai a girare il mondo, per il mio lavoro; andai a vivere in altre città. Ebbi l’occasione di fare confronti. E mentre Taranto veniva imbruttita, insozzata, io scoprivo quanto era bella. L’aria del mio quartiere, i Tamburi, era quella fine del sanatorio per i malati di tubercolosi. Oggi è veleno. A Rondinella, dove c’erano gli “spaghetti di mare” e i miei amici più abili riuscivano a pescare, ogni tanto, dei pesciolini a mani nude (mi facevano rabbia: anni e anni ci ho provato, non uno stronzo di pescetto suicida che mi abbia voluto dare la soddisfazione di poter dire: anch’io!), oggi non ci puoi mettere piede: lo ritireresti fuori di un altro colore (minimo).

Ma i tarantini, pur fra mille polemiche e liti, hanno deciso di decidere e di darsi da fare, per influire sul futuro della città e proprio. E hanno deciso lo stesso i campani della Terra dei Fuochi; non tacciono i lucani contro la colonizzazione petrolifera, né i calabresi contro la ‘ndrangheta, i palermitani contro il pizzo…

Il Sud ricostruisce la sua rinascita. Con difficoltà immense, contro poteri enormi e contro il nemico peggiore che ci sia: la rassegnazione all’idea che non si possa far nulla. Non è vero, si può e si fa e lo si sta facendo.

Mi piace l’idea della Pasqua, come giorno della resurrezione. Mi piace, perché ricorda che la resurrezione, vera, non è di un giorno, ma quotidiana. Ogni giorno un po’, ma tutti i giorni.

Auguri a tutti i ribelli positivi. Auguri e grazie, per le resurrezioni di lunedì, martedì, mercoledì…