Non sappiamo se dopo l’emergenza Coronavirus torneremo “al solito tran tran” o se, viceversa, entreremo in una nuova fase che ci spingerà a rivedere tanti aspetti critici che sono un freno allo sviluppo del Sud e alla crescita economica e sociale del nostro Paese. Non possiamo al momento prevederlo, anche se il sospetto è che difficilmente tutto tornerà come prima. Molto più probabile è che il virus divenga una leva che predispone al cambiamento o, almeno, al bisogno di un reset delle consuetudini. Quello che appare certo è che sta mutando, forse in maniera irreversibile, il sentiment degli italiani – ad esempio – sull’Europa unita.
Alla prova del nove, ossia la diffusione di una epidemia senza precedenti che attanaglia anzitutto il nostro Paese, l’Italia ha ricavato, nella serie:
- Essere additata come Paese untore
- Visti impediti arrivi dei suoi voli negli aeroporti di mezzo mondo
- La minaccia di chiudere il valico del Brennero al passaggio dei tir da e per l’Italia
- Negare l’acquisto e trasferimento di mascherine e di altri presidi sanitari da altri Paesi alleati: scelta scelerata, che ha sollevato il rammarico della stessa Commissione europea.
Ed infine – ultima “coltellata alla schiena” di un’Italia vacillante – è arrivato da Christine Lagarde, la quale ha escluso interventi decisi della Bce – che presiede – per mitigare le conseguenze finanziarie della crisi sanitaria. Una molto improvvida dichiarazione, che ha provocato un crollo delle borse e l’avvio di una speculazione senza precedenti, non nragguagliabile alle tante giornate di fuoco che seguirono alla crisi dei subprime del 2008.
Ma a parte le alte sfere della policy europea, sulla quali è rischioso avventurarsi in assenza di competenze specifiche, il contagio ci induce anche a fare nondimeno i conti con l’assetto istituzionale italiano e del Sud. A chiederci, in altri termini, se il regionalismo funziona o non funziona dinanzi agli effetti di una tempesta perfetta, un “cigno nero” che invece di riguardare la finanza, stavolta affonda le radici nel cuore del sistema sanitario nazionale e di quello che ne è rimasto.
In buona sostanza, per stare più ai fatti di casa, l’emergenza ci permetterà di fare finalmente i conti con le distorsioni di un regionalismo spinto ai confini della autonomia differenziata, di cui si è parlato per mesi come di una panacea fino a non molto fa?
Se lo chiede Isaia Sales, intellettuale e docente di Storia della mafia, profondo osservatore dei fenomeni connessi al meridionalismo, in un recente articolo del Mattino: “Coronavirus e Sud ai tempi del regionalismo sprecato”. Un commento in cui l’editorialista va giù duro nel giudizio sulle istituzioni territoriali della Repubblica, affermando tra l’altro:
- Il Sud non può minimamente essere soddisfatto del suo regionalismo: non c’è nessuna regione meridionale che grazie ai poteri assegnati dal 1970 in poi abbia cambiato le condizioni economiche e civili del proprio territorio.
- Non c’è nessuna regione meridionale che in un campo specifico di competenze abbia riscontrato risultati migliori o pari a quelli di altre regioni del Centro-Nord…
- Per anni ho difeso il regionalismo spinto dalla constatazione che il centralismo non aveva dato risultati tali da scommettere ancora sul fatto che potesse risolvere o attenuare i problemi del Sud. Oggi non ne sono più convinto.
- Il regionalismo nel Sud è stato una grande occasione sprecata. In nessuna delle otto regioni si è palesata un’esperienza di buon governo, una classe dirigente dignitosa, buoni risultati in campi strategici (la sanità, i rifiuti, i trasporti, l’utilizzo dei fondi comunitari), una gestione oculata e onesta della macchina amministrativa.
- Anzi, al contrario, abbiamo assistito ad una gestione opaca, familistica, per larghi tratti clientelare ed esposta in alcuni settori anche ad infiltrazioni malavitose…
Quanto all’effetto forse più deformante della pessima gestione del sistema sanitario ad opera delle Regioni, un dato spicca su tutti:
“Dal 2009 al 2016 – rammenta ancora Sales – le quattro più grandi regioni meridionali hanno pagato oltre 7 miliardi di euro alle regioni del Nord a causa della migrazione sanitaria. Nel Sud circa il 10% del totale dei residenti ricoverati per interventi chirurgici acuti si sposta verso regioni del Centro- Nord. Quante strutture di eccellenza il ministero – si domanda infine il professore – avrebbe potuto costruire nel Sud (e gestire direttamente) con quelle risorse?
Claudio D’Aquino