Antonio Troise
Ritorno al passato. C’è molto di Prima e Seconda Repubblica in quello che si è visto ieri in alla Camera sul decreto lavoro. Un vertice che finisce con l’immancabile fumata nera. La minoranza del Pd, maggioranza in Commissione, che riesce ad imporre le sue modifiche. Il governo costretto a una fiducia su un testo che non condivide e che sarà cambiato in Senato. Con l’immancabile conto alla rovescia per evitare un clamoroso flop: il decreto deve essere convertito in legge entro il 20 maggio. Se è questo l’inizio del cammino del cosiddetto Jobs Act c’è poco da stare allegri: il percorso si presenta in salita e ricco di insidie.
Naturalmente, il lavoro è da sempre un terreno di scontro fra i partiti. Soprattutto in un periodo pre-elettorale: il Nuovo Centrodestra strizzando l’occhio alla Confindustria, la minoranza del Pd alla Cgil, l’opposizione dicendo no a tutto. Fra i due fuochi il premier Renzi che, però, non mostra segni di eccessivo nervosismo: sa bene che al suo governo non c’è alternativa e che nessuno dei soci di maggioranza dell’esecutivo ha davvero la voglia (e l’intenzione) di farlo cadere e di andare alle urne.
Ma, al di là della partita, tutta politica, che si giocherà nelle prossime tre settimane fra Montecitorio e Palazzo Madama, resta la drammatica realtà dei numeri. Siamo un Paese dove il tasso di disoccupazione, in un anno, è passato dal 12 al 13%, dove un giovane su due non riesce a trovare un lavoro e dove oltre un milione di famiglie non ha alcuna fonte di reddito. Nel frattempo, centinaia di provvedimenti che potrebbero innescare la ripresa sono arenati nelle sabbie mobili della burocrazia e dei ministeri.
Di fronte a questo scenario, sembra davvero poca cosa lo scontro sui contratti a termine, con quella riduzione da 8 a 5 della possibilità di rinnovo senza casuali nell’arco di 36 mesi. Così come sembra fuori dal tempo il dibattito sull’apprendistato e sulle modalità dei piani formativi (aziendali o regionali). Sono i due punti sui quali Pd e Ncd hanno battagliato fino all’ultimo ieri. Capitoli che (c’è da scommetterci) difficilmente potranno risolvere il problema della disoccupazione.
E’ vero che il lavoro non si crea per decreto. Ma è anche vero che senza un’assunzione vera di responsabilità da parte di tutte le forze in campo, dalla Confindustria ai sindacati, dal governo ai partiti, difficilmente si riuscirà a dare una risposta alla generazione “no job”, a quell’esercito di giovani che rischia di saltare definitivamente l’appuntamento con il mercato del lavoro. Per questo non c’è più tempo per i bizantinismi della politica. E’ arrivato il momento di agire. E in fretta.