Antonio Troise
Ufficialmente, siamo in coda alla classifica dei paesi in grado di attrarre capitali dall’estero. Qualche gradino più in su dell’Italia troviamo perfino il Ruanda. Ufficiosamente, però, non passa giorno che un pezzo del nostro apparato manifatturiero non finisca in mani straniere. L’ultima acquisizione, in ordine di tempo, è quella della Indesit, conquistata dalla Whirlpool. Ma l’elenco è lungo, va dall’industria (Poltrona Frau) alla moda (Loro Piana, Krizia, Gucci, Bulgari…) fino all’agroalimentare (Pasta Garofalo, gelateria Fassi…). Uno shopping “selvaggio” che è costato alle multinazionali straniere la cifra ragguardevole di 2 miliardi di euro. Ufficialmente, si tratta di investimenti esteri, positivi per un paese che ha sulle spalle il peso di una reputazione pessima, fatta di burocrazia, gap infrastrutturali e corruzione. Ufficiosamente, sono acquisizioni che nulla portano in termini di sviluppo e di nuovi posti di lavoro. C’è poco da fare: è difficile inserire questo shopping sotto la voce “profitti” dell’Azienda Italia. I conti non tornano e il rischio che, alla prima difficoltà, le imprese spostino altrove impianti, cervelli e capitali, conservando solo il marchio è altissimo.
Certo, pensare a barriere protezionistiche o limitarsi a invocare bandiere di italianità, nell’epoca della globalizzazione, è anacronistico oltre che dannoso. L’esperienza dell’Alitalia, salvata da una “cordata tricolore” con un costo (per i contribuenti) vicino agli 8 miliardi di euro, è la parabola (più significativa) degli errori di una difesa ad oltranza dell’indifendibile: nei prossimi mesi la compagnia finirà, stabilmente, nell’orbita degli arabi di Etihad.
Il problema, invece, è più complesso. Da una parte, bisogna proteggere le imprese che davvero sono strategiche per il nostro sistema produttivo. Ma c’è anche un altro dato su cui riflettere: a fronte dei tanti capitali stranieri che hanno acquisito marchi storici, non c’è mai stato un percorso inverso. Tutte le volte che i capitali italiani si sono affacciati al di fuori dei confini nazionali, sono stati accolti con diffidenza e tanti ostacoli. Insomma, è mancata la reciprocità.
Siamo, allora, condannati ad essere terra di conquista? Sì, fino a quando non riusciremo a mettere in campo una vera politica industriale e far crescere le dimensioni delle nostre imprese. Non è solo una questione di nazionalismo. Attrarre capitali dall’estero va bene se si tratta di investimenti diretti, che creano nuove fabbriche e nuovi posti di lavoro. Altrimenti, se si acquistano solo quote di mercato, i rischi potrebbero essere maggiori dei vantaggi iniziali.
fonte: l’Arena