Antonio Troise
E’ un po’ come l’araba fenice: che ci sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa. Della ripresa prossima ventura si sono perse le tracce. E ora che perfino la locomotiva tedesca ha ingranato le marce basse, sull’Europa torna ad aggirarsi lo spettro della stagnazione. Gli ultimi dati del Fondo Monetario Internazionale delineano per il 2014 uno scenario a tinte scure. Qualche piccola pennellata di rosa si intravede per il 2015, ma anche quella è ancora sfocata e incerta. In questo scenario, l’Italia occupa il gradino più basso della classifica della crescita: siamo il paese che soffre di più. Dopo la Banca d’Italia anche l’Fmi ha tagliato le stime del nostro Pil, dimezzando la previsione iniziale: da 0,6 a 0,3. Per carità, stiamo parlando di decimali: anche nell’ipotesi più ottimistica, effetti concreti sullo sviluppo e sull’occupazione non ce ne sarebbero stati. Ma il segnale del rallentamento è preoccupante soprattutto perché avrà un effetto di trascinamento sulla prima parte dell’anno prossimo e sul rapporto debito-Pil. Senza contare, poi, l’effetto psicologico che i nuovi dati avranno sulle aspettative degli investitori internazionali e dei mercati.
Il problema, però, non è solo italiano. Anche la Francia non se la passa bene, così come quasi tutti i Paesi dell’eurozona. L’unica eccezione riguarda la Spagna, che ha fatto registrare un aumento del Pil di quasi mezzo punto nell’ultimo trimestre e la migliore performance sul versante dell’occupazione. Ma si tratta di una fiammata congiunturale e non di una inversione di tendenza strutturale. Resta il fatto che l’Europa continua a crescere in maniera troppo lenta. Insufficiente per cancellare la più lunga recessione che la storia dell’economia ricordi.
A complicare ulteriormente il quadro internazionale ci si sono messe, poi, negli ultimi mesi, le nuove tensioni geo-politiche, con la crisi in Medio-oriente e la guerra civile in Ucraina, focolai che hanno già spinto gli operatori finanziari e i mercati ad azionare più di un campanello di allarme. Se a questo aggiungiamo che la crescita dell’economia americana, nel primo trimestre, è stata largamente inferiore alle attese e che il colosso cinese sta rallentando il suo passo, riusciamo forse a spiegare meglio le previsioni in grigio sfornate in settimana dal Fondo Monetario.
La conclusione è che l’appuntamento con la ripresa si sta spostando sempre più avanti. E chi, in Europa, si aspettava un aiuto dalla congiuntura globale per far ripartire investimenti e consumi dovrà rivedere le proprie posizioni.
Oggi più che mai, in sostanza, la politica economica non può restare con le mani in mano affidandosi completamente, al mercato o, peggio ancora, alle regole degli euro-tecnocrati o della finanza. Il modello di governance della crisi portato avanti fino ad oggi è clamorosamente fallito. Le ricette che l’Europa ha messo in campo per la crescita e l’occupazione non hanno praticamente prodotto risultati misurabili. In compenso sia la Germania, che gli altri Paesi più ricchi, hanno accumulato nei loro forzieri miliardi di euro di surplus commerciale che non sanno come investire. Mentre le nazioni con un alto debito pubblico, a cominciare dall’Italia, non sono in grado di finanziare misure per lo sviluppo senza incorrere nella tagliola dei parametri di Maastricht. Due facce della stessa medaglia, quella di un’Europa che non riesce ancora a trovare la sua strada per uscire dal tunnel della recessione. Per questo è necessario che la nuova Commissione che guiderà il Vecchio Continente nei prossimi anni trovi il coraggio di fare scelte anti-cicliche, in grado di rimettere in moto investimenti e occupazione offrendo risposte immediate per uscire dalle secche della bassa crescita. Aspettare che la situazione cambi affidandosi alle tradizionali locomotive della Germania o degli Stati Uniti sarebbe una scelta suicida.