Prima il federalismo ha gonfiato il ruolo delle tasse locali, poi la crisi di fmanza pubblica ha impedito di compensare questa dinamica con l’alleggerimento del fisco locale, e quello che doveva essere uno spostamento del carico fiscale dal centro alla periferia si è trasformato in una duplicazione di imposte fra Roma e i territori. Un problema non da poco, che si aggrava quando si guarda alla sua geografia, perché a pagare il federalismo dimezzato sono stati chiamati prima di tutto cittadini e imprese delle regioni del Sud: in pratica, nelle aree del Paese dove la ricchezza è inferiore si è scatenata una spirale perversa tra bilanci pubblici zoppicanti e aliquote in crescita, con il risultato che in rapporto al reddito il carico fiscale è maggiore dove la qualità dei servizi offerti dalle amministrazioni regionali e locali è più in affanno. Questo capitolo ulteriore della “questione meridionale” emerge dall’analisi condotta dal la Banca d’Italia sugli effetti congiunti di tributi, addizionali e aliquote presentate da Regioni (che hanno ovviamente il ruolo da protagonista), Province e Comuni. Su questa base, i tecnici di Via Nazionale hanno ricostruito la storia fiscale 2012-2014 di tre tipologie di famiglie nelle diverse regioni italiane, mettendo insieme il pacchetto delle dieci tasse chieste a ciascuna di loro dagli enti territoriali: nel caso del fisco provinciale e locale, l’indagine calcola la media della pressione fiscale che le famiglie-tipo incontrerebbero nei diversi capoluoghi della regione. A pagare la crisi dei bilanci locali, e soprattutto le misure fiscali messe in campo per puntellarli, sono state soprattutto le famiglie del ceto medio e medio-basso: le cure si sono sentite soprattutto al Centro-Sud, dove le tasse chieste da Regioni, Province e Comuni arrivano spesso a chiedere una quota che oscilla fra il 6 e l’8% del reddito disponibile.