Riceviamo e pubblichiamo
Egregio Direttore,
Il modo con cui Tavella presenta la necessità di vendere il palazzo di via Torino,sede della Cgil napoletana, desta molto perplessità sia sul piano pratico sia su quello propriamente sindacale e organizzativo.
Mi chiamo Ernesto Nocera, prima segretario generale del sindacato ferrovieri SPI-CGIL di Napoli e poi fra i fondatori e primo segretario regionale della FILT/CGIL Campania: Sono stato membro del direttivo nazionale CGIL ed in quella veste ho collaborato con Rinaldo Scheda nella commissione amministrativa centrale della CGIL. Ho dunque qualche conoscenza delle dinamiche dei bilanci del mio sindacato L’acquisto della sede di via Torino non fu un investimento ma la materializzazione di una scelta politica: rafforzare la confederalità. In questo senso le osservazioni di Libertino sulla Repubblica del 25 agosto sono corrette.
La sede CGIL di Napoli è un esempio unico in Italia . Altre sedi come quella di Corso Italia della CGIL o quella della CdL di Milano provengono dalla requisizione del patrimonio del disciolto PNF o della Gil, che venne assegnato ai sindacati come risarcimento delle sedi sindacali sequestrate e requisite dai fascisti con la presa del potere.
Come mai non si inizia da quelle sedi non acquisite con i soldi dei lavoratori e si inizia proprio da quella che ha questa caratteristica? Le difficoltà di bilancio sono comuni. E dunque?
Caro Tavella, per uscire dal Palazzo non è necessario venderlo. Andare incontro ai lavoratori, significa andare sui posti di lavoro, confrontarsi in assemblee e negli organismi di impianto. Significa pensare a forme nuove di organizzazione per incontrare giovani e disoccupati, forse sarebbe giusto investire in qualche furgone che presenzi i luoghi dove i giovani vivono e parlare con essi dei loro problemi e delle possibili soluzioni. Tavella insiste con la immaterialità delle strutture, svelando così un convinto renzismo
“Nell’epoca delle telecomunicazioni non c’è bisogno di avere grandi uffici. Basta davvero un portatile,uno smartphone e ognuno si porta dietro il suo ufficio” queste le sue parole.
Esse rivelano una visione burocratica del sindacato fatta di “uffici” non sede viva di incontri in cui i lavoratori possano guardarsi negli occhi con i loro dirigenti . Tavella si è chiesto come mai questa “modernità” non è condivisa da Confindustria, Confagricoltura, Confitarma, Confcommercio? Come ma le associazioni datoriali non si pongono il problema della “modernità”? Siamo più realisti del re, dunque?
Infine, posto che, le strutture ospiti del palazzo comunque dovranno avere una sede, chi pagherà le spese della diaspora? Ed i servizi comuni che fine faranno? Perciò anche dal punto di vista dei risparmi la scelta desta perplessità. Infine trovo scorretto che di queste serissime questioni si parli prima con la stampa, evidentemente convocata ad hoc per fare da megafono al Tavella–pensiero anziché porre il problema nelle sedi deputate ed avviando una revisione delle spese che eviti una così traumatica operazione. Come mai un dirigente noto per essere taciturno trova all’improvviso tanta voglia di comunicazione?
Non c’entra la nostalgia ed il necessario rinnovamento del sindacato non passa per una operazione immobiliare. C’è bisogno di nuovi dirigenti che vengano dalla produzione da selezionare con un’attività formativa sparita dagli orizzonti sindacali.
Il dirigente sindacale deve venire da una concreta esperienza lavorativa, il funzionario di mestiere, buono per tutti gli usi è la fine di un sindacato libero. Riformare e ripartire è giusto ma con questi indirizzi e non indulgendo ad una maggiore burocratizzazione.
Innovarsi o perire dice Tavella. Ma innovare è termine equivoco se non si definisce la prospettiva. La più grande innovazione della politica italiana negli anni ’20 fu il fascismo. Giusto per ricordarlo.
Ancora più pericolosa e politicamente dannosa è l’ipotesi di una ulteriore concentrazione per grandi aree della struttura del sindacato attualmente organizzata su dodici strutture da ridurre a sei.
Il sindacato ha in sé una insopprimibile componente corporativa, esso nasce per difendere le necessità di una determinata categoria: La CGIL ha temperato questa tendenza con la confederalità, tratto distintivo della sua storia. Aggregare e concentrare le categorie può far perdere di vista ai lavoratori il legame fra la politica del sindacato e la difesa ed il controllo delle proprie condizioni e necessità – E’ una scelta pericolosa perché aprirà spazi alla iniziativa degli autonomi che hanno una visione limitata e corporativa dei problemi .Stiamo offrendo il fianco al proliferare di scioperi a gatto selvaggio e ad iniziative dannose per i lavoratori e politicamente pericolose per la società
Siano i lavoratori a decidere. Si convochino gli organismi e si esaminino seriamente i bilanci tagliando dove è possibile. Certo con un governo che si vanta di voler tagliare permessi e distacchi la cosa diventa più difficile ma l’Italia ha bisogno di un sindacato moderno e attrezzato per le nuove sfide che pensi non solo ai lavoratori occupati ma anche a quelli che il lavoro l’hanno lasciato e ancor di più a quelli che non ci sono ancora entrati. E che sia in grado di affrontare le complessità di una società in evoluzione. L’operazione così come è congegnata ha solo una valenza ragionieristica. Mi dispiace, ma non ci siamo.
Ernesto Nocera
Ex segretario generale FILT/CGIL Camapania.