Di LAURA BERCIOUX
Diego Armando Maradona. El Pibe de Oro ha fatto la storia del calcio. Napoli vinse il suo primo scudettoe quattro anni dopo fu celebrato a Napoli il Te Diegum: una giornata di ringraziamento per il più grande calciatore di tutti i tempi, proprio quando el Pibe fu travolto da molti scandali. La classe non è acqua” era il titolo del convegno dibattito dove intellettuali, tifosi, giornalisti, medici, avvocati, sociologi italiani e stranieri si appassionarono a Maradona: Marino Niola, Ettore Botti, Francesco Castiglione, Gianni Minà, Oscar Nicolaus, e altri ancora.
Il Te Diegum, sottotitolo “Genio, Sregolatezza & Bacchettoni”, fu un momento memorabile, che diede anche modo di parlare di problemi reali. La storia di Maradona è il racconto di un’intera città tra sogni, speranze, sussulti e occasioni. Fu la genialità e la sregolatezza del più grande calciatore di tutti i tempi che alla città regalò uno scudetto e un riscatto. Napoli era Campione d’Italia. Francesco Castiglione, da sempre tifoso del Napoli, avvocato e ordinario di diritto del lavoro, è tra coloro che diedero vita al Te Diegum. Un momento che forse vale la pena di rivivere a poche ore dalla partita con la Roma. Una partita ad alta tensione dopo la morte di Ciro Esposito.
“ Lo scetticismo non fu scalfito neppure dall’arrivo di Diego – ricorda Castiglione nel “Te Diegum. Genio, Sregolatezza & Bacchettoni. L’accoglienza trionfale, in cui sicuramente trovava posto anche la natura curiosa, festaiola e ospitale della gente napoletana, fu dettata più che altro dal desiderio del pubblico di presentarsi al campione, quasi a volerlo rassicurare su quanto fosse stata saggia la scelta di imporre il suo quero me irme al Barcellona. Ma certamente nessuno pensò che quel sodalizio avrebbe infranto la forza del destino. Poi Diego ci incantò. Allenato o con il fiato corto, grasso o magro, fosse appena arrivato da Via Orazio o da Buenos Aires, contro gli arbitraggi e contro le più volgari aggressioni giornalistiche, Diego vinceva. Diego infrangeva gli incantesimi. Diego avverò il sogno. Diego era indispensabile. Quando, preceduta dal solito can-can settimanale, la domenica arrivava densa di dubbi, non c’era chi, recandosi allo stadio, non avesse bisogno di quella rassicurazione: “Ma…Diego ci sta?” questa la domanda che aleggiava prima che i megafoni confermando che il 10 – come sempre – era di Diego, ci consentissero di tirar giù il fiato sospeso e di acquisire la certezza di non aver fatto torto al ragù nell’interporgli lo stadio.
Tutti volevano veder Diego. L’Inter, il Milan, la Juve a volte riempivano e riempiono gli stadi, ma la gente non va allo stadio solo per assistere alle atletiche prestazioni di Matthaeus, di Van Basten o di Schillaci. Ovunque il Napoli giocasse, indipendentemente dalla posta in palio, da interessi di classifica o da rivalità storiche, il tutto-esaurito era invece garantito dalla sua sola presenza: c’era Maradona, ed anche la più insipida amichevole diventava un’occasione che era meglio non perdere. Ai napoletani non dispiacevano i vizi di Maradona. L’indolenza mattutina, l’insofferenza alle ferree regole da caserma, quel vestiario assurdo, l’orecchino al lobo, le nottate al night, usi e abusi, la sua dissolutezza, insomma, che tanto indignava il giornalismo bacchettone, quel suo essere simile solo a se stesso che è tipico del fuoriclasse, del cavallo di razza, esaltavano sino alla leggenda le sue imprese domenicali: quanto più dissoluta era stata la sua settimana, tanto più i suoi gol valevano doppio, maggiore era la soddisfazione di vedere sbeffeggiati i perfetti atleti, le società-modello, le S.p.A. del calcio.
Per gli Agnelli e Berlusconi erano ben più che sconfitte, erano il precipizio nel ridicolo. Per i tifosi napoletani – ancora assai inclini a cogliere nel calcio il senso del gioco – erano l’occasione per esercitare una delle loro attività predilette: lo sfottò. Una sorta di collettiva gigantesca pernacchia – quella di Eduardo – Don Ersilio Miccio nell’Oro di Napoli, per intenderci – simbolicamente si levava da Fuorigrotta ad ogni prodezza di quel sinistro scellerato e divino.” …. “Che cosa sarebbe accaduto quando avremmo visto quell’inconfondibile cabeza scomparire per l’ultima volta giù per le scale degli spogliatoi? Gli avremmo preparato una festa d’addio grandiosa come era stato il benvenuto, o che altro? Avremmo avuto voglia di tornare allo stadio senza di lui? E per vedere cosa? E chi? E’ vero che i binari del destino sovente corrono lungo percorsi imprevedibili. Nessuno avrebbe mai potuto immaginare di vederlo per l’ultima volta, senza sapere che era “l’ultima volta”. Se n’è andato in silenzio, senza un grazie, senza una stretta di mano, neppure una bandiera azzurra a dirgli addio. Dopo le Idi di Marzo , si è scatenata la Restaurazione.
Gli organi di informazione bacchettona – quelli che lo usavano per vendere dal lunedì al sabato, ma che la domenica lui metteva a tacere – hanno ricevuto gli ordini di scuderia: dopo il giocatore, cancellare anche il suo modo eversivo di essere vincente; distruggere il simbolo, tornare alla “normalità”, riportare sui vessilli lo stile –Juventus. Da quel mancato addio e dalla furia infame delle infamie e delle menzogne propinate a destra e a manca è nato in me e negli altri amici de “La classe non è acqua” il desiderio insopprimibile di organizzare il Te Diegum: una giornata di doveroso ringraziamento a chi ripagava le nostre trecentomila lire all’anno offrendoci ogni domenica l’ebbrezza di uno spettacolo di classe assoluta. Oggi ho avuto la forza, non la voglia, di tornare allo stadio: è stato come assistere alle volgari esibizioni di Jovanotti dopo aver ascoltato una sontuosa sinfonia di Mozart”.