La “resurrezione” del call center a Napoli contro la “morte” del lavoro a Roma. Una storia simbolica quella dei 2.400 dipendenti (800 campani e 1.600 romani) dei due call center di Almaviva, a fine 2016, che di fronte al rischio chiusura imboccarono due strade opposte: collaborazione a Napoli con il via libera a controlli individuali per aumentare la produttività pur di mantenere il posto, scontro e licenziamenti di massa a Roma.

A distanza di quasi 18 mesi ora spunta un primo bilancio dell’esperienza partenopea ed è assai sorprendente perché rompe tanti luoghi comuni sui call center come luoghi di schiavitù moderna. I fatti: ieri Almaviva ha diffuso i dati dell’andamento del lavoro degli 800 dipendenti partenopei. Sono cifre clamorose. Si parte da un aumento della produttività del 6% e si passa a un miglioramento del 7% degli “Indicatori di prestazione”, cioè della qualità del lavoro. Ma soprattutto spicca un88% di livello di soddisfazione dei lavoratori. Tutto questo avviene in un call center dove la metà del personale è part time a 4 ore, dunque guadagna poco, ma dove i lavoratori pur di mantenere in piedi l’azienda e il proprio posto hanno accettato tagli triennali agli stipendi e soprattutto il controllo aziendale del proprio rendimento. A smentire che si tratti della classica favola aziendale da Mulino Bianco sono i sindacalisti, a partire da quelli Cgil. «Abbiamo raccolto una sfida – dice Alessandra Tommasini della Cgil – I lavoratori hanno approvato all’80%, con un referendum, l’accordo con l’azienda. Dunque come sindacato stiamo coadiuvando una scelta difficile e spinosa ma democratica».