Un Paese diviso e diseguale, dove il Sud scivola sempre più nell’arretramento: nel 2013 il divario di Pil prò capite è tornato ai livelli di dieci anni fa, negli anni di crisi 2008-2013 i consumi di delle famiglie sono crollati quasi del 13%, gli investimenti nell’industria addirittura del 53%, i tassi di iscrizione all’Università tornano ai primi anni Duemila e per la prima volta il numero di occupati ha sfondato al ribasso la soglia psicologica dei 6 milioni, il livello più basso dal 1977. Una terra a rischio desertificazione” industriale e umana, dove si continua a emigrare, non fare figli e impoverirsi: in cinque anni le famiglie assolutamente povere sono aumentate di due volte e mezzo, da 443mila a 1 milione e 14mila nuclei. Questa la fotografia che emerge dalle anticipazioni del Rapporto SVIMEZ sull’economia del Mezzogiorno 2014 presentate oggi alla Camera dei Deputati a Roma.
Pil e Mezzogiorno – In base a valutazioni SVIMEZ nel 2013 il Pil è crollato nel Mezzogiorno del 3,5%, approfondendo la flessione dell’anno precedente (-3,2%), con un calo superiore di quasi due percentuali rispetto al Centro-Nord (-1,4%). Da rilevare che per il sesto anno consecutivo il Pil del Mezzogiorno registra segno negativo, a testimonianza della criticità dell’area. Il peggior andamento del Pil meridionale nel 2013 è dovuto soprattutto ad una più sfavorevole dinamica della domanda interna, sia per i consumi che per gli investimenti. Anche gli andamenti di lungo periodo confermano un Paese spaccato e diseguale: negli anni di crisi 2008-2013 il Sud ha perso -13,3% contro il 7% del Centro-Nord. Il divario di Pil prò capite tra Centro-Nord e Sud nel 2013 è sceso al 56,6%, tornando ai livelli di dieci anni fa.
A livello regionale nel 2013 segno negativo per tutte le regioni italiane, a eccezione del Trentino alto Adige (+1,3%) e della stazionaria Toscana (0%). Anche le regioni del Centro-Nord, sono tornate a segnare cali significativi, come l’Emilia Romagna (-1,5%), il Piemonte (-2,6%), il veneto (-3,6%), fino alla Valle d’Aosta (-4,4%). Nel Mezzogiorno la forbice resta compresa tra il -1,8% dell’Abruzzo e il -6% della Basilicata, fanalino di coda nazionale. In posizione intermedia la Campania (-2,1%), la Sicilia (-2,7%), il Molise (-3,2%). Giù anche Sardegna (-4,4%), Calabria (-5%) e Puglia (-5,6%). Guardando agli anni della crisi, dal 2008 al 2013, profonde difficoltà restano soprattutto in Basilicata e Molise, che segnano cali cumulati superiori al 16%, accanto alla Puglia (-14,3%), la Sicilia (-14,6%) e la Calabria (-13,3%).
Nel periodo 2001-2013 Italia peggio della Grecia – Dal 2001 al 2013 il tasso di crescita cumulato è stato + 15% in Germania, +19% in Spagna, + 14,3% in Francia. Segno positivo perfino in Grecia, +1,6%. Negativa l’Italia, con -0,2%, tirata giù sostanzialmente dal Mezzogiorno, che perde oltre il 7%, contro il +2% del Centro-Nord.
Pil per abitante e divari storici – In termini di Pil prò capite, il Mezzogiorno nel 2013 è sceso al 56,6% del valore del Centro Nord, tornando ai livelli del 2003, con un Pil prò capite pari a 16.888 euro.
In valori assoluti, a livello nazionale, il Pil è stato di 25.457 euro, risultante dalla media tra i 29.837 euro del Centro-Nord e i 16.888 del Mezzogiorno. Nel 2013 la regione più ricca è stata la Valle d’Aosta, con 34.442 euro, seguita dal Trentino Alto Adige (34.170), dalla Lombardia (33.055), l’Emilia Romagna (31.239 euro) e Lazio (29.379 euro). Nel Mezzogiorno la regione con il Pil prò capite più elevato è stata l’Abruzzo (21.845 euro). Seguono il Molise (19.374), la Sardegna (18.620), la Basilicata (17.006 euro), la Puglia (16.512), la Campania (16.291), la Sicilia (16.152). La regione più povera è la Calabria, con 15.989 euro.
Il divario tra la regione più ricca e la più povera è stato nel 2013 pari a 18.453 euro: in altri termini, un valdostano ha prodotto nel 2013 oltre 18mila euro in più di un calabrese. Il crollo dei consumi – I consumi delle famiglie meridionali sono ancora scesi, arrivando a ridursi nel 2013 del 2,4%, a fronte del -2% delle regioni del Centro-Nord. Dal 2008 al 2013 la caduta cumulata dei consumi delle famiglie ha sfiorato nel Mezzogiorno i 13 punti percentuali (-12,7%), risultando di oltre due volte maggiore di quella registrata nel resto del Paese (-5,7%). In particolare, negli anni di crisi 2008-2013, il calo cumulato della spesa è stato al Sud del -14,6% per i consumi alimentari, a fronte del -10,7% del Centro-Nord; e di ben il -23,7% per il vestiario e calzature, quasi doppio che nel resto del Paese (-13,8%). Significativo e preoccupante anche il crollo della spesa delle famiglie relativo agli altri “beni e servizi”, che racchiudono i servizi per la cura della persona e le spese per l’istruzione: -16,2% al Sud, tre volte in più rispetto al Centro-Nord (-5,4%)
Gli investimenti – Anche nel 2013 gli investimenti fissi lordi hanno segnato una caduta maggiore al Sud rispetto al Centro-Nord: -5,2% rispetto a -4,6%. Dal 2008 al 2013 in più sono crollati del 33% nel Mezzogiorno e del 24,5% nel Centro-Nord.
A livello settoriale, crollo epocale al Sud degli investimenti dell’industria in senso stretto, ridottisi dal 2008 al 2013 addirittura del 53,4%, più del doppio rispetto al già pesante calo del Centro-Nord (-24,6%). Giù anche gli investimenti nelle costruzioni, con un calo cumulato del -26,7% al Sud e del -38,4% al Centro-Nord, in agricoltura, (-44,6% al Sud, quasi tre volte più del Centro-Nord, -14,5%) e nei servizi collegati all’industria: -35% al Sud contro il -23% al Centro-Nord.
Ancora in calo la spesa pubblica per investimenti al Sud – Nel 2012 la spesa aggiuntiva per il Sud è scesa al 67,3% del totale nazionale, ben al di sotto della quota dell’80% fissata per la ripartizione delle risorse aggiuntive tra aree depresse del Centro-Nord e del Sud del Paese. Particolarmente preoccupanti i tagli agli investimenti in infrastrutture; se nel Centro-Nord si mantengono i livelli di spesa per opere pubbliche di 40 anni fa, al Sud oggi si spende 1/5 di quanto si faceva negli anni ’70. Dinamiche divergenti anche sul fronte degli investimenti delle imprese pubbliche nazionali: al Sud nel 2012 sono crollati del 12,8% rispetto al 2011, mentre al Centro-Nord nello stesso periodo sono saliti del 2,9%.
Giù tutti i settori – Nella crisi la riduzione del valore aggiunto è stata più intensa al Sud in tutti i settori produttivi. Peggio di tutti l’industria: qui il valore aggiunto è diminuito al Sud negli anni 2008 – 2013 cumulativamente del -28,6%, a fronte del -17,2% nel resto del Paese. In calo anche le costruzioni, il cui valore aggiunto è diminuito cumulativamente al Sud del 35;3% a fronte del -23,8% del Centro-Nord. Scendono nel periodo in questione anche i servizi, -7,7% al Sud e -2,5% al Centro-Nord.
Segno negativo anche se si guarda al solo 2013: l’agricoltura perde lo 0,2% al Sud, mentre il centro-Nord guadagna +0,6%; l’industria crolla del 7,6% al Sud e del 3,2% al Centro-Nord; i servizi segnano -2,3% al Sud contro -0,4% dell’altra ripartizione.
Il deserto industriale – Dal 2008 al 2013 il settore manifatturiero al Sud ha perso il 27% del proprio prodotto, e ha più che dimezzato gli investimenti (-53%). La crisi non è stata altrettanto profonda nel Centro-Nord, dove la diminuzione di prodotto e occupazione è stata di circa 16 punti inferiore, quella degli investimenti di oltre il 24%. Nel 2013 la quota del valore aggiunto manifatturiero sul Pil è stata pari al Sud al 9,3%, un dato ben lontano dal 18,6% del Centro –
Nord e dal 20% auspicato dal presidente di Confindustria Giorgio Squinzi. Gli addetti nell’industria in senso stretto al Sud nel 2013 sono scesi dai 43,6 per mille abitanti del 2008 ai 37,4 del 2013.
Il valore aggiunto dell’industria in senso stretto nel 2013 è stato pari al 20,7% del prodotto complessivo dell’economia nel Centro-Nord e all’11,8% al Sud. A livello regionale, l’Abruzzo si conferma in linea e anzi superiore al centro-Nord, con un valore del 21,8%, seguito dal Molise con il 17% e dalla Basilicata (14,5%). In coda la Sicilia (8,2%) e la Calabria (7,6%), tutte comunque in calo rispetto ai valori già bassi registrati nel 2007. Le imprese meridionali continuano a essere di piccole dimensioni: in dieci anni, dal 2001 al 2011, il peso delle micro imprese under 9 addetti è passato dal 33,9% al 37,6%.
Il Sud è ormai a forte rischio di desertificazione industriale, con la conseguenza che l’assenza di risorse umane, imprenditoriali e finanziarie potrebbe impedire ali ‘area meridionale di agganciare la possibile ripresa e trasformare la crisi ciclica in un sottosviluppo permanente.
Italia divisa anche nel no profit – In Italia il Terzo settore occupa oltre 5 milioni e 700mila lavoratori, di cui però solo 1/5 al Sud (pari a 1 milione 138mila). Inoltre ogni istituzione del settore riceve in media al Centro-Nord 252mila euro annue, soprattutto provenienti da fondazioni bancarie, al Sud oltre due volte meno (97mila). // Terzo settore resta quindi molto più sviluppato al Centro-Nord e in grado di svolgere un importante ruolo di supplenza della PA nell ‘erogazione dei servizi alla persona. In assenza di risorse, invece, al Sud molti servizi non possono invece essere garantiti.
Nel 2013 occupati al Sud come nel 1977 – Il Mezzogiorno tra il 2008 ed il 2013 registra una caduta dell’occupazione del 9%, a fronte del -2,4% del Centro-Nord. Delle 985mila persone che in Italia hanno perso il posto di lavoro, ben 583mila sono residenti nel Mezzogiorno. Nel Sud, dunque, pur essendo presente appena il 26% degli occupati italiani si concentra il 60% delle perdite determinate dalla crisi.
Nel 2013 sono andati persi 478mila posti di lavoro in Italia, di cui 282mila al Sud. Posti di lavoro persi soprattutto tra i lavoratori giovani under 34 e al Sud (-12% contro il -6,9% del Centro-Nord). La nuova flessione riporta il numero degli occupati del Sud per la prima volta nella storia a 5,8 milioni, sotto la soglia psicologica dei 6 milioni; il livello più basso almeno dal 1977, anno da cui sono disponibili le serie storiche basi di dati. Tornare indietro ai livelli di quasi quarantanni fa testimonia, da un lato, il processo di crescita mai decollato, e, dall’altro, il livello di smottamento del mercato del lavoro meridionale e la modifica della geografìa del lavoro. Non va meglio nell’ultimo periodo: tra il primo trimestre del 2013 e quello del 2014 gli occupati scendono di 170mila unità nel Sud e di 41 mila al Centro-Nord. In altri termini, le tendenze più recenti segnalano che al Sud si concentra oltre l’80% delle perdite dei posti di lavoro italiani. Da segnalare inoltre nel 2013 l’aumento del tasso di disoccupazione. Quello “ufficiale” nel 2013 è stato del 19,7% al Sud e del 9,1% al Centro-Nord, a testimonianza del permanente squilibrio strutturale del nostro mercato del lavoro.
Donne, giovani e studenti (sempre meno) – Le donne continuano a lavorare poco: nel 2013 a fronte di un tasso di attività femminile medio del 66% in Europa a 28, che arriva ali’83% in Finlandia, se l’Emilia Romagna è perfettamente allineata con la media europea, le regioni del Mezzogiorno vanno peggio di Malta e della Romania (che registrano tassi di attività femminile rispettivamente del 50% e del 48,4%), scendendo fino al 38% in Puglia, il 37% in Calabria e Campania, il 35% in Sicilia.
Piove inoltre sempre sul bagnato: nel 2013 chi non ha un lavoro stabile rischia di più di perderlo: il 16,4% dei lavoratori che nel primo trimestre 2012 avevano un contratto di lavoro atipico, un anno dopo, nel 2013, erano diventati disoccupati (di cui il 12,8% al Centro-Nord e il doppio al Sud, 25,3%).
In più, rispetto alla media europea a 27 del 75,3%, i giovani diplomati e laureati italiani presentano un tasso di occupazione di circa 27 punti più basso, pari al 48,3%.
Si inizia a credere che studiare non paghi più, alimentando così una spirale di impoverimento del capitale umano, determinata da emigrazione, lunga permanenza in uno stato di disoccupazione e scoraggiamento a investire nella formazione avanzata. Non a caso, dei 3 milioni 593mila giovani Neet (Not in education, employment or training) nel 2013, aumentati di oltre il 25% rispetto al 2008, il 47% è diplomato e Pll% laureato. La condizione di Neet inizia quindi a diffondersi anche tra i titoli di studio medio-alti, con un aumento negli ultimi cinque anni del 54% dei diplomati e del 43% per i laureati. Per questo, non ci si iscrive più all’Università: i tassi di passaggio dalla scuola superiore all’istruzione terziaria nell’anno scolastico 2012-2013 sono scesi al 51,7% al Sud e al 58,8% al Centro-Nord, riportando il Paese ben al di sotto dei livelli di dieci anni fa.
Si parte, e si fanno meno figli – In dieci anni, dal 2001 al 2011 sono migrate dal Mezzogiorno verso il Centro-Nord oltre 1 milione e mezzo di persone, di cui 188 mila laureati.
Il tasso di fecondità al Sud è arrivato a 1,34 figli per donna, ben distanti dai 2,1 necessari a garantire la stabilità demografica, e inferiore comunque all’1,48 del Centro-Nord. Nel 2013 al Sud si sono registrate solo 180 mi la nascite, un livello che ci riporta al minimo storico registrato oltre 150 anni fa, durante l’Unità d’Italia. Pericolo da cui il Centro-Nord finora appare immune: con i suoi 388mila nuovi nati nel 2013 pare lontano dal suo minimo storico di 288mila unità toccato nel 1987. Il Sud sarà quindi interessato nei prossimi anni da un stravolgimento demografico, uno tsunami dalle conseguenze imprevedibili, destinato a perdere 4,2 milioni di abitanti nei prossimi 50 anni, arrivando così a pesare per il 27% sul totale nazionale a fronte dell’attuale 34,3%.
Il Sud sempre più povero – In Italia oltre due milioni di famiglie si trovavano nel 2013 al di sotto della soglia di povertà assoluta, equamente divise tra Centro-Nord e Sud (1 milione e 14mila famiglie per ripartizione), con un aumento di 1 milione 150mila famiglie rispetto al 2007.
La povertà assoluta è aumentata al Sud rispetto all’anno scorso del 2,8% contro lo 0,5% del Centro-Nord. Nel periodo 2007-2013 al Sud le famiglie assolutamente povere sono cresciute oltre due volte e mezzo, da 443mila a 1 milione 14mila, il 40% in più solo nell’ultimo anno.