La ripresa economica non sembra ancora in grado di incidere su una condizione sociale che resta allarmante, in cui si combinano povertà, diseguaglianze e immobilità sociale. I poveri sono ormai stabilmente intorno ai 4,5 milioni, di cui oltre 2 milioni nel solo Mezzogiorno. Ancora nel 2016 circa 10 meridionali su cento risultano in condizione di povertà assoluta contro poco più di 6 nel Centro-Nord: erano rispettivamente pari a 5 e 2,4 solo dieci anni prima.
Al divario territoriale Nord-Sud se ne aggiungono altri, come quello centro-periferie. L’incidenza della povertà assoluta nel Mezzogiorno nel 2016 aumenta nelle periferie delle aree metropolitane e nei comuni con più di 50 mila abitanti (da 8,8% nel 2015 a 11,1% nel 2016) e diminuisce sensibilmente, invece, nei comuni centro delle aree metropolitane e in misura più contenuta nei comuni con meno di 50 mila abitanti (da 8,4% nel 2015 a 5,4% nel 2016 e da 8,8% a 7,8% rispettivamente).
Un meridionale su tre è esposto al rischio di povertà, che nel Sud si attesta al 34,1%. In tutte le regioni meridionali, inoltre, risulta superiore sia rispetto al dato nazionale (19,0%) sia rispetto a quello del Centro-Nord (11,0%). Nelle regioni più popolate, Sicilia e Campania, il rischio di povertà arriva a sfiorare il 40%.
La ripresa dell’occupazione non ha inciso sensibilmente sui livelli di povertà, perché ha interessato solo parzialmente le fasce di popolazione più esposte al rischio di marginalizzazione sociale: lavoratori con un basso livello di istruzione, stranieri e giovani. In particolare, gli occupati con nessun titolo o con la licenza elementare flettono ancora nel 2016, il tasso di crescita degli occupati stranieri si dimezza passando da valori intorno al 5% annuo negli anni della crisi a circa il 2,5% nel biennio di ripresa.
Il fattore che ha maggiormente inciso sull’aggravarsi della condizione sociale è l’incremento dei lavoratori a bassa retribuzione, che ha caratterizzato l’ultimo decennio, la cui quota, dopo un andamento sostanzialmente stabile nella prima metà degli anni Duemila, è salita nella crisi dal 30% a circa il 35%.
In Italia, più che altrove, gran parte dell’azione redistributiva è svolta dai trasferimenti pensionistici, mentre modesto è il peso di altri trasferimenti monetari di sostegno al reddito, come assegni al nucleo familiare e sussidi di disoccupazione.
Secondo la SVIMEZ, il Reddito di Inclusione avvia un processo che può diventare, in prospettiva, un sussidio universale, destinato a tutte le famiglie in condizioni di povertà grave, ma allo stato è insufficiente a coprire l’intera platea dei possibili beneficiari. Per il 2018, il sostegno monetario alle famiglie più povere sarà finanziato con 1.482 milioni, che saliranno a 1.568 milioni nel 2019, risorse certamente largamente insufficienti, di cui beneficeranno circa 500 mila famiglie rispetto a 1.619.000 stimate, pari al 38% circa degli individui in povertà assoluta.
Di qui la nostra proposta di un aumento delle risorse che consenta, in tempi brevi, l’estensione del ReI alla totalità delle famiglie. Finanziando tale spesa a «saldi invariati», recuperando i mancati incassi per misure generalizzate di riduzione dell’imposizione fiscale sugli immobili e destinandoli a questa misura contro la povertà, che, peraltro, avrebbe un impatto sui consumi senza dubbio superiore. Una scelta, a parere della SVIMEZ, non solo giusta ma anche economicamente efficace.
Tra i motivi che determinano i flussi migratori vi è innanzitutto la speranza di un miglioramento della situazione economica della famiglia. Il flusso in tutti questi anni è stato pressoché unidirezionale, dal Sud al Nord, tanto che oggi circa il 10% delle famiglie residenti nel Centro-Nord ha un capofamiglia nato nel Mezzogiorno, mentre appena l’1% del campione meridionale ha un capofamiglia settentrionale.
Siamo oggi in Italia, ma in particolare al Sud, di fronte a un circolo vizioso di immobilità sociale, per cui i canali informali di accesso al lavoro dei laureati e l’emigrazione diventano l’unica via di sbocco. Dati recenti relativi al 2016 evidenziano che associando i titoli dei figli a quelli dei genitori, oltre il 40% dei figli la cui famiglia d’origine ha un livello d’istruzione basso non va oltre il titolo di licenza media, e poco più del 10% riesce a ottenere un titolo universitario. All’opposto, tra i figli dei laureati, oltre il 60% ha acquisito un titolo universitario.
Secondo la SVIMEZ, per includere un maggior numero di persone nell’istruzione universitaria, è indispensabile promuovere la qualità dei corsi di studio e adeguare il sistema di erogazione delle borse di studio agli studenti meritevoli e/o sprovvisti di mezzi. Così come, per evitare che “amici, parenti e conoscenti” rappresentino, di gran lunga, il principale canale di ingresso sul mercato del lavoro e che i giovani non siano costretti a emigrare dalla propria terra d’origine, va potenziato il ruolo dei canali formali di ricerca di un posto di lavoro, promuovendo lo svolgimento di concorsi pubblici trasparenti e migliorando l’efficienza dei Servizi Pubblici per l’Impiego.