Politica interna
Tragedia in Abruzzo. Tragedia all’Hotel Resort Rigopiano, alle pendici del Gran Sasso, in Abruzzo: una slavina mercoledì pomeriggio ha travolto la struttura, spazzando via tutto ciò che ha incontrato sulla propria strada. Era di tre piani, ora sono rimaste le colonne e a stento il primo, piegato sotto cumuli bianchi. Il comandante dei carabinieri Marco Riscaldati dice che “ci sono tra i venticinque e i 35 ospiti, e una decina di dipendenti”, e ancora usa uno speranzoso presente alle tre del pomeriggio, ovvero a quasi 24 ore dal disastro che s’è abbattuto quassù: “Un deceduto e due persone in salvo”, aggiunge. Più tardi i numeri cambiano, i corpi recuperati diventano quattro, i dispersi oltre 25, tra cui quattro bambini; ma col passare delle ore e col termometro che a two metri scende di notte a dieci o quindici sotto zero su queste pendici del Gran Sasso sopra Farindola l’espressione “dispersi” perde concretezza, diventa preghiera di ritrovare ancora qualcuno vivo. Uno dei fattori che avrebbero contribuito alla tragedia dell’Hotel Rigopiano è stata una catena di comando faticosa che, tra la prima segnalazione al 118 del disastro, le 17.40, e l’invio della colonna di soccorso, poco dopo le 19.30, ha perso quasi due ore. Poco chiari ancora i dettagli dell’accaduto, tutti da ricostruire, e su cui ha già acceso un faro pm Andrea Papalia, che indaga per omicidio colposo.
Equilibri nel Pd. Fra otto giorni, sabato 28 gennaio, a Rimini, il Pd parlerà di buon governo dei comuni, gestione dei migranti, investimenti nei territori. Lo stesso giorno, a Roma, un altro pezzo di Pd discuterà di lavoro, povertà, diseguaglianze. Da una parte, a Rimini, ospite Matteo Renzi; a Roma, protagonista Massimo D’Alema. A poco meno di due mesi dal voto che ha travolto il governo Renzi e spaccato il Pd, cominciano quindi i movimenti in vista del congresso di fine anno. Fermento anche nella stessa corrente renziana: a pochi giorni dalla sentenza della Consulta che deciderà le sorti della legge elettorale, nei continui conciliaboli tra parlamentari Pd, ma anche nelle riunioni di corrente di questi giorni, comincia ad emergere un tema che non può non preoccupare Matteo Renzi, ovvero un certo scetticismo tra i suoi sistenitori della prima ora. Qualche giorno, raccontano, il tema lo aveva sollevato Cesare Damiano, che insieme a Maurizio Martina anima la corrente “Sinistra è cambiamento”. Se Martina è tra i più decisi nel sostenere le scelte di Renzi, l’ex ministro del Lavoro durante una riunione di corrente avrebbe attaccato: primo, nessuna corsa al voto; secondo: è il momento di cominciare a ragionare se Renzi possa essere ancora il leader più adatto. Ragionamenti simili, poi, sarebbero stati fatti ieri durante l’assembla dei “giovani turchi”, l’area di Andrea Orlando e Matteo Orfini. Nel frattempo ieri, da registrare oltre un’ora di faccia a faccia a Palazzo Chigi tra il premier Gentiloni e Prodi, una sorta di consulenza d’eccezione, di cui si è avvalso il presidente del Consiglio in carica, richiesta a un grande conoscitore delle dinamiche comunitarie.
Politica estera
Giuramento di Trump. Sono iniziate ieri mattina a Washington le cerimonie inagurali per l’avvio della nuova presidenza di Donal Trump. Oggi invece ci sarà l’appuntamento con la solennità, la grande suggestiva cerimonia al Campidoglio, le emozioni, il giuramento, il discorso, il passaggio formale e pacifico dei poteri con impeccabile puntualità dopo 220 anni. Inizio alle 9.30 di Washington, con il presidente uscente Obama chamato all’ultimo atto ufficiale, accogliere il Presidente Donald Trump con la First Lady Melania e il Vice Presidente Mike Pence con la moglie Karen per un primo benvenuto nella loro nuova residenza. Alle 10.30 in punto Obama e Trump saliranno sulla limousine presidenziale per recarsi in processione al Campidoglio dove si terrà la cerimonia di giuramento. Sentimenti contrastanti dominano l’opinione pubblica, tra chi già rimpiange l’amministrazione uscente di Obama e il popolo di Trump, condottiero di un’altra rivoluzione liberale come quella di Reagan. Da oggi finiscono però speculazioni e strumentalizzazioni, la campagna elettorale lascia il posto al giudizio su ciò che effettivamente il nuovo presidente riuscirà a fare.
Spionaggio. Si allarga l’inchiesta dell’Fbi sulla presunta ingerenza di spie russe nello svolgimento della campagna per le elezioni presidenziali negli Stati Uniti: secondo fonti direttamente coinvolte, l’attacco di Mosca non si era limitato alla raccolta di informazioni digitali attraverso gli hacker, ma ha incluso un’ampia operazione di “humint”, ossia intelligence umana. Durante l’anno elettorale, l’Fbi ha individuato almeno 50 persone di nazionalità russa entrate negli Usa con visti giornalistici falsi, che in realtà avevano rapporti diretti con i servizi segreti. Diverse di queste persone sono state poi notate nei pressi dei seggi. Su queste basi Obama prese la decisione di espellere 35 diplomatici di Mosca, che probabilmente avevano a loro volta rapporti con i servizi. Intanto Julian Assange ribadisce di essere pronto a consegnarsi agli USA se saranno garantiti i suoi diritti: il fondatore di WIkileaks, parlando via social metwork dalla sede dell’ambasciata ecuadoregna a Londra, ha specificato che ovviamente una delle condizioni che si aspetta è la liberazione di Chelsea Manning, l’analista dell’intelligence americano legato alla diffusione dei file segreti e graziato dal presidente Obama. Il suo rilascio è previsto per maggio e dunque c’è una finestra temporale per eventuali contatti con Washington. Durante il contatto con i media, è stato chiesto ad Assange un suo giudizio su Donald Trump. La sua risposta: non sono d’accordo su nulla con di lui, però è stato demonizzato dalla stampa.
Economia e finanza
Draghi. L’appello del presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, ai suoi critici, soprattutto tedeschi, mentre annunciava come previsto che la politica monetaria resterà invariata, nonostante un aumento dell’inflazione nel mese di dicembre che dovrebbe continuare nella prima parte del 2017: “Abbiate pazienza”, dice Draghi, che difficilmente verrà ascoltato, specialmente in un anno elettorale, agiudicare dalla prima pagina del quotidiano popolare “Bild” che ieri ha lanciato l’allarme sull’inflazione. Draghi ha ricordato che, se l’inflazione è salita nell’eurozona all’1,1% dallo 0,6% in un solo mese e si prevede aumenti ancora, questo è un effetto quasi del tutto dovuto all’aumento del prezzo del petrolio e il dato di base, depurato dall’ energia e dagli alimentari, resta “debole” e “non dà segnali convincenti di una tendenza al rialzo”. Il messaggio dato dalla Bce potrebbe apparire addirittura scontato, se non fossimo in una fase congiunturale – ma anche storica – particolarmente delicata dell’Unione, in cui è più probabile che la visione istituzionale della Bce – focalizzata su un unico obiettivo, europea e non nazionale come prospettiva, di orizzonte lungo – si scontri con gli interessi più miopi delle politiche nazionali.
Trattativa Bruxelles – Roma. Continuano le trattative tra Roma e Bruxelles con l’obiettivo italiano di evitare, almeno nel breve periodo, qualsiasi intervento correttivo alla manovra. La strategia del Governo per rispondere al pressing di Bruxelles su una rapida correzione dei conti pubblici pari a 0,2 punti di Pil non è stat aancora messa nero su bianco. Ma con il trascorrere delle ore prende sempre più corpo l’ipotesi di indicare nella missiva di risposta da inviare entro il 1 febbraio alla commissione Ue quale snodo chiave della partita sui “decimali” di finanza pubblica la stesura del Prossimo Documento di economia e finanza (Def), attesa per aprile. Opzione che si rafforza dopo l’incontro di ieri tra il ministro Padoan e il Commissario Moscovici a Davos. Roma punta a più tempo e ad uno sconto, sperando di poter limitare il pacchetto ad un paio di miliardi e di poter dilazionare le misure in più provvedimenti: un mix di nuovi interventi ed emendamenti a decreti, da adottare da febbraio in avanti. Intanto il Commissario Moscovici dichiara alla stampa: “La lettera è il seguito della procedura avviata in autunno. Il governo italiano si era impegnato a un deficit all’1,896 del Pil nel 2017, poi è arrivato a 2,496. Cè una parte di flessibilità che abbiamo accettato. Resta però uno scarto di 0,2%. Quindi abbiamo scritto a Padoan e cercheremo insieme le soluzioni perché l’Italia rispetti il criterio sul debito. E ci arriveremo, non ho vere preoccupazioni su questo. Dunque non c’è alcuna tensione. Spero non ci sia un malinteso. Se ci fosse, lo abbiamo cancellato Pier Carlo e io parlandoci qui a Davos”.