• La SVIMEZ da alcuni anni – ed in particolare da ultimo nel Rapporto 2015 sull’economia del Mezzogiorno – ha sottolineato come le “esigenze prioritarie” siano oggi costituite dal rilancio dell’accumulazione e del fare fronte al crescente disagio sociale.

A quest’ultimo riguardo, si è posto in luce come la crescita della povertà assoluta e relativa e del rischio di povertà, verificatosi in tutto il Paese negli anni della crisi, abbia condotto ad una situazione caratterizzata da una gravità della condizione di povertà decisamente maggiore nel Mezzogiorno rispetto al resto del Paese.

L’incidenza della povertà assoluta in rapporto alla popolazione è aumentata al Sud dal 2008 al 2014 dal 5,2% al 10,6%, dal 2.7% al 5,6% nel Centro-Nord.

Gli individui a “rischio di povertà” sono risultati nel 2013 pari al 32,8% della popolazione residente al Sud, a fronte del 10,3% nel Centro-Nord.

 

  • Elementi decisivi di vulnerabilità delle famiglie e che determinano in misura significativa la differenza osservata tra Mezzogiorno e Centro-Nord nel rischio di povertà sono i bassi tassi di occupazione, soprattutto giovanile e femminile, e l’insufficienza nel numero di percettori rispetto alle persone a carico che ne deriva (v. All. 1 – Rapporto SVIMEZ 2015, cap. IV – Disuguaglianze, povertà, esclusione sociale).

Il rischio di povertà è più alto al Sud rispetto al resto del Paese soprattutto per le famiglie con minori e per quelle giovani, ma anche per le coppie senza figli giovani e adulte e per quelle in cui convivono più nuclei familiari.

  • Sia nel Centro-Nord, sia in misura maggiore al Sud, l’occupazione è una condizione necessaria ma non sufficiente per determinare una significativa riduzione del rischio di povertà, soprattutto per le famiglie con figli minori a carico.

I più bassi tassi di occupazione e il loro ulteriore abbassamento negli anni della crisi a causa della dinamica decisamente più negativa del mercato del lavoro costituiscono comunque un fattore centrale nell’aggravamento del problema della povertà (v. All. 2 – Alcuni dati sull’andamento Nord-Sud dell’occupazione 2008-2015)

Con riferimento al quadro occupazionale, come si presenta nel 2015, a otto anni dall’esplodere della crisi economica può ricordarsi quanto segue:

Il livello dell’occupazione risulta, nella media del 2015, rispetto al 2008 al Sud ancora ridotto del 7,5% (meno 481,7 mila occupati); nel Centro-Nord complessivamente considerato, la perdita di occupazione è del -0,9% (meno 144 mila occupati); significative differenze si rilevano, per altro, tra il Centro Italia, in aumento rispetto al 2008 (+1,8%; 88 mila occupati in più), e il Nord, con una perdita dell’1,9% (-232 mila occupati).

Il deficit di occupazione da recuperare si concentra dunque principalmente al Sud, ma riguarda ancora anche parti significative del resto del Paese.

 

Nel Mezzogiorno la caduta di occupazione si è concentrata, come nel resto del Paese, sui giovani, ma con una accentuazione più marcata: la riduzione degli occupati 15-34 anni è del -30,6% (- 598 mila unità) nel Sud e del -27,1% (-1.356 mila) nel Centro-Nord.

A differenza che nel Centro-Nord, inoltre, la perdita di occupazione ha colpito anche le classi centrali di età: gli occupati 35-54 anni si sono ridotti del 5,7%, di circa 204 mila unità, a fronte di un aumento del 2,1% nel Centro-Nord (+199 mila unità). Si è indebolita, dunque, anche la rete di sostegno rappresentata per le famiglie meridionali, rispetto alle persone a carico, da precedenti percettori di reddito.

 

  • Di fronte alla dinamica crescente della povertà da alcuni anni ormai la SVIMEZ – in linea con quanto avanzato da altri importanti soggetti sociali e istituzionali (in primo luogo, la Caritas) – ha rimarcato l’urgenza di una rete protettiva della povertà con l’introduzione di una misura universalistica di sostegno al reddito. (sino ad oggi assente – come noto – in Europa solo nel nostro Paese e in Grecia). Una misura non più rinviabile anche in presenza di un auspicato, ma certo non facile né scontato, rafforzamento della positiva inversione della dinamica occupazionale avviatasi anche al Sud nell’ultimo anno; rafforzamento che resta, a nostro avviso, strettamente legato alla ripresa di una strategia nazionale di sviluppo e non può essere certamente affidato ai soli fattori di origine esterna.

 

 

  1. Alcune prime possibili notazioni sul Disegno di legge delega A.C. 3594
  • L’esigenza di procedere alla messa in campo di un intervento nazionale di contrasto alla povertà ha trovato una prima importante risposta in quanto previsto dalla Legge di stabilità 2016: adozione di un Piano nazionale per la lotta alla povertà e all’esclusione; istituzione del Fondo per la lotta alla povertà e all’esclusione; avvio di una misura nazionale di contrasto alla povertà. E, per quanto riguarda la copertura finanziaria, la previsione di un nuovo stanziamento di 600 milioni di euro per il 2016 e di un miliardo per il 2017 – che aggiungendosi alle altre risorse già disponibili – portano in finanziamento complessivo a circa 1,5 miliardi per ognuno dei prossimi anni.
  • La strategia della lotta alla povertà dei prossimi anni è demandata alla legge delega. Il relativo disegno di legge, presentato il 28 febbraio, prevede l’adozione di uno o più decreti legislativi recanti in particolare:
  1. L’introduzione di una misura nazionale per il contrasto alla povertà da considerare livello essenziale delle prestazioni (art. 1), che devono essere garantiti in tutto il territorio nazionale (art. 4).
  2. Al riguardo si osserva che la definizione nazionale dei livelli essenziali delle prestazioni in campo sociale, da garantirsi su tutto il territorio nazionale, previste dal Titolo V della Costituzione e dalla delega sul federalismo fiscale, e così l’attivazione del fondo di perequazione ex 119 Cost., non hanno tuttora avuto applicazione, se non parzialmente per alcune materie.

 

  1. La razionalizzazione delle prestazioni di natura assistenziale, nonché di altre prestazione di natura previdenziale, sottoposte alla prova dei mezzi […] fatta eccezione per le prestazioni legate alle condizioni di disabilità e di invalidità del beneficiario.
  2. Sembra condivisibile, al riguardo, la preoccupazione espressa dall’Alleanza contro la povertà in Italia nella sua nota del 1° febbraio 2016 sul disegno di legge delega A.C. 3594, secondo cui la mancanza di una scissione tra gli atti sulla lotta alla povertà e quelli sulla revisione dell’assistenza – che coinvolge ben più persone e interessi rispetto alla povertà – possa spostare l’attenzione più sulle questioni della spesa che non sul tema della lotta alla povertà. Mentre il riordino delle prestazioni assistenziali – si rileva sempre nella nota – “pur necessario”, deve essere vincolato ad una vera riforma del welfare.

 

  • Un aspetto particolarmente positivo è costituito dall’enfasi che nel disegno di legge delega si pone sulla natura di inclusione attiva, e non assistenziale, del sostegno economico della misura nazionale di contrasto alla povertà da introdurre, “condizionato all’adesione per un progetto personalizzato di inclusione sociale e lavorativa volto all’affiancamento dalla condizione di povertà”, sostenuto dall’offerta di servizi alla persona (art. 2, lettera a). Una indicazione, questa, rafforzata dalla previsione della “promozione di accordi territoriali tra i servizi sociali e altri enti od organismi competenti per l’inserimento lavorativo, l’istruzione e la formazione e la salute, […] al fine di realizzare un’offerta integrata di interventi e di servizi che costituisce il livello essenziale delle prestazioni”.
  • Di particolare importanza, a nostro avviso, appare la specifica considerazione tra i bisogni primari da garantire, nel quadro di un contratto di inserimento sociale con i beneficiari, vi siano anche quelli di formazione e di istruzione, oggi penalizzate nel Sud da standard di servizio meno elevati (scuola secondaria) o da una gestione calante della spesa nel settore della formazione terziaria (Università e dintorni).

 

  • L’elemento più problematico del Piano per la lotta alla povertà è a nostro avviso costituito dalla mancata previsione di un progressivo incremento dei finanziamenti, che renda disponibile prima della fine del decennio un ammontare di risorse in grado di raggiungere la totalità, o almeno la maggior parte, dei 4,1 milioni di persone che in Italia attualmente verranno in condizioni di povertà assoluta; ammontare valutabile, nel caso del REIS (Reddito di inclusione sociale) proposto dall’Alleanza contro la povertà, in circa 7 miliardi di lire (circa 8,3 miliardi secondo le valutazioni SVIMEZ riferite al 2013). Gli 1,5 miliardi previsti dal Governo – che si propone per altro di allargare comunque l’utenza con l’erogazione di contributi monetari piuttosto bassi – arriverebbero a coprire intorno al 30% delle persone povere (tra 1 e 3 milioni).
  • Al riguardo, si osserva che, pur nel rispetto dei vincoli di bilancio, e cioè a «saldi invariati», la questione del costo delle misure anti-povertà deve considerare i benefici effetti del nesso tra maggiore equità e crescita, e potrebbe essere affrontata attraverso una riconsiderazione delle scelte redistributive. Può richiamarsi, in particolare, come la sola abolizione/ridimensionamento dell’imposizione sugli immobili residenziali dia luogo ad una riduzione delle entrate fiscali, su base annuale, di circa 3,5 miliardi di euro (anno di base 2014), giustificata come leva per aumentare i consumi per dare fiato alla ripresa. Una spesa equivalente a questi incassi mancati in una misura contro la povertà avrebbe un impatto sui consumi senza dubbio superiore.