Antonio Troise
Avranno sicuramente ragione a non abbassare la guardia. E a tenere ben fermo il timone sulla rotta del rigore. C’è davvero poco da scherzare con il pesante fardello del debito pubblico che ci portiamo sulle spalle, oltre il 130% del Pil. Basta una piccola bufera finanziaria o una scossa dei tassi di interesse per mandare tutto all’aria. Eppure, fanno un certo effetto gli allarmi e le strigliate che arrivano dai santuari dell’economia. Ieri è toccato a Bankitalia e Corte dei Conti far conoscere il loro pensiero al Parlamento sul complicato e intricato tema delle pensioni. Il problema è noto: da una parte i lavoratori che dal 2019 potranno appendere la tuta al chiodo solo dai 69 anni. Dall’altra, il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, che ha dovuto sudare sette camicie per far quadrare i conti della manovra economica e che continua a parlare di “sentiero stretto”. Una metafora che, tradotta in soldoni, significa più o meno questo: in cassa non ci sono le risorse per allentare la stretta sull’età pensionabile.
Ma c’è modo e modo con cui comunicare. E, soprattutto, ci sono pulpiti dai quali è difficile accettare prediche previdenziali. Prendiamo il caso della Bce. L’istituto guidato da Mario Draghi ha sempre usato parole durissime sul tema delle pensioni, pronto a sparare ad alzo zero tutte le volte che in Italia si è cercato di smontare la riforma Fornero. Eppure, a Francoforte, ci sono ancora le baby pensioni: i dipendenti dell’istituto possono lasciare anche a 55 anni. Inoltre, i trattamenti non sono calcolati con il contributivo (sulla base cioè dei versamenti effettuati durante l’intera vita lavorativa) ma con il ben più conveniente sistema retributivo (assegni valutati sulla base dell’ultimo stipendio). Anche in Bankitalia, fino a pochi anni fa, la previdenza era ricca di sacche di privilegio, Cancellati dalle recenti riforme e in vigore solo per chi è stato assunto prima del 1993.
Per carità, nessuno vuole mettere in discussione i diritti acquisiti. Ma fa sicuramente un certo effetto pensare che persone che guadagnano centinaia di migliaia di euro all’anno possano incidere sulla carne viva della società e decidere sul destino di famiglie che non arrivano a fine mese o di pensionati che non riescono neanche a superare la soglia dei 500 euro. Certo, tutto questo non significa che i sacrifici non siano necessari e che possiamo tornare alla stagione delle vacche grasse e della spesa facile. Ma sarebbe estremamente importante che a decidere sulla fascia di popolazione più povera non ci sia solo la nomenclatura più ricca della burocrazia pubblica. Un paradosso che alimenta quella fastidiosa sensazione di distacco fra il Paese reale e quello dei Palazzi. E che gonfia le vele del populismo.